Ambiente
La pattumiera dei nostri pc
L’insostenibile pesantezza dei personal computer, dei laptop, della telefonia mobile e degli smart phone, che l’innovazione tecnologica e l’obsolescenza programmata trasformano rapidamente da “novità” in rifiuti, si può misurare nel Paese africano.
Ae lo ha fatto, qualche mese fa, pubblicando il reportage “La discarica hi-tech”. Un racconto che oggi è confermato dal rapporto “What a Waste” (in allegato), reso pubblico il 23 novembre dal network internazionale Make it fair
Secondo le Nazioni Unite, ogni anno vengono generati oltre 50 milioni di tonnellate di e-waste, che in italiano significa rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee), una tipologia di rifiuti considerata speciale. I Raee, infatti, includono litio, cadmio, mercurio ed altri minerali pesanti e sostanze pericolose. Molti di questi rifiuti vengono spediti nei Paesi in via di sviluppo, che non possiedono però le infrastrutture necessarie per trattare questi rifiuti elettronici.
Il Ghana è da considerarsi secondo Make it Fair una sorta di hotspot per l’e-waste, una piattaforma verso la quale converge da tutto il mondo questa tipologia di rifiuti. Secondo il rapporto "What a Waste", sarebbero circa 600, ogni mese, i container che arrivano al Tema Port, importati da broker and e-shop ghanesi. Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Danimarca, Italia e Spagna, invece, sono i primi sei Paesi europei per numero di pc usati esportati verso il Ghana. Migliaia di persone, nel Paese africano, lavorano nell’industria informale dei rifiuti, e il 40 per cento di questi sono bambini. Questi ultimi sono impiegati in particolare nella discarica Agbogbloshie, alla periferia di Accra, della quale i nostri Daniela Napoli e Cristiano Nattero hanno scritto: “La discarica si estende a perdita d’occhio, e ovunque vediamo fuochi e persone al lavoro. Ci fermiamo a parlare con un gruppetto di bambini intenti a recuperare metalli: sono pieni di tagli, soprattutto nelle gambe, e in generale non sembrano in salute. Ci raccontano che vengono a lavorare qui tutti i giorni: preferirebbero andare a scuola, ma i loro genitori non guadagnano abbastanza per mantenerli. Sono gli unici bambini che abbiamo incontrato in Ghana che non sembrano aver voglia di scherzare e giocare. Mike ne ha contati più di 500; la sua opinione è che se continueranno ad avvelenarsi qui, non arriveranno a compiere vent’anni. Ci mostrano come lavorano: rompono a pietrate i tubi catodici per recuperare le viti e i pezzi in metallo, smontano i telai condividendo un unico cacciavite, strisciano in terra la calamita di un altoparlante per recuperare metalli ferrosi: tutto rigorosamente a mani nude, e con infradito ai piedi. Nessuno tra loro sembra consapevole dei rischi a cui si espone respirando questi veleni”.