La mano visibile della guerra – Ae 93
Per sapere dove scoppierà la prossima non serve la sfera di cristallo: i flussi di armamenti anticipano e favoriscono i conflitti. È un’offerta che crea la domanda, e il mercato negli ultimi quattro anni è cresciuto del 50 per cento…
Per sapere dove scoppierà la prossima non serve la sfera di cristallo: i flussi di armamenti anticipano e favoriscono i conflitti. È un’offerta che crea la domanda, e il mercato negli ultimi quattro anni è cresciuto del 50 per cento
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, la cosiddetta “guerra al terrore” avrebbe dovuto stimolare la volontà politica dei governi d’impedire che le armi cadessero in mani sbagliate. Al contrario, alcuni fornitori hanno allentato il controllo, in modo che i nuovi alleati contro il “terrorismo” potessero armarsi. Eppure è ormai chiaro che, storicamente, i flussi di armi anticipano e favoriscono lo scoppio di un conflitto: l’offerta crea la domanda. Come in Iraq: nel corso degli anni 80 aziende canadesi, cinesi, francesi, tedesche, greche, britanniche e statunitensi avevano fornito alle forze armate irachene tecnologie militari e dual use. E nel 1990, quando l’Onu impose un embargo sulle armi, l’Iraq aveva continuato a ricevere forniture illegali. Sono emerse prove per cui tutti i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu avevano rifornito il regime di Saddam Hussein. Anche in Afghanistan, durante i 23 anni di conflitto che ha devastato il Paese, gli Usa -ma anche il Pakistan, l’Iran e la Cina-, hanno giocato un ruolo fondamentale nell’armare le varie fazioni in lotta contro i russi e tra di loro. Gli Usa hanno fornito aiuto militare ai mujahideen in Afghanistan fino al 1991, e molte di quelle armi sono state in seguito utilizzate dai talebani.
Dopo il 2001 si è impennata il valore del commercio internazionale di armi. Secondo il rapporto 2006 dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri, www.sipri.org), che riporta i trasferimenti dei maggiori sistemi d’arma ma non quello di armi piccole e leggere, il valore complessivo ha toccato i 55 miliardi di dollari, con un aumento del 50% rispetto al 2002. A questi dati poi bisogna aggiungere quelli relativi al commercio illegale di armi, che secondo gli esperti è aumentato del 4,7% in concomitanza con l’aumento dei Paesi sotto embargo e con il dilagare dei conflitti.
Negli ultimi anni i flussi di armi si sono diretti in aree “calde”, come il Medio Oriente, con la crisi israelo-palestinese, l’Iraq e l’Afghanistan. I Paesi del Golfo, in particolare, a partire dagli anni 90 hanno riempito gli arsenali, sfruttando le disponibilità economiche derivanti dalla vendita del petrolio. Anche i giganti asiatici e i Paesi del Sud-Est della regione, a partire dalla fine degli anni 90, sono aree che hanno assorbito ingenti quantità di armi. Tre Paesi in queste aree -Israele, Pakistan ed India- possiedono testate atomiche e non aderiscono al Trattato di non proliferazione nucleare. Le armi convenzionali, invece, nonostante le devastazioni di cui sono causa, non sono ancora oggetto di leggi internazionali vincolanti ed esaustive che ne regolino l’esportazione. Così, oggi che la “guerra al terrorismo” ha cambiato in maniera sostanziale la politica di alcuni governi, si esportano sempre più armi con scarsa considerazione dell’atteggiamento del Paese ricevente in materia di diritti umani, nonché verso Paesi con cui si sono stipulate alleanze basate esclusivamente sull’esistenza di un comune nemico.
Non esiste ancora un sistema mondiale di controlli sui trasferimenti internazionali di armi. L’unica misura giuridicamente vincolante prevista dalle Nazioni Unite sono gli embarghi sui trasferimenti di armi, a cui si è fatto sempre più spesso ricorso negli anni 90, soprattutto dopo la fine della guerra fredda. Ma gli embarghi non hanno alcuna efficacia preventiva poiché vengono adottati quando si è già in presenza di un conflitto, dopo che le parti hanno già avuto modo di rifornirsi di armi. Inoltre, sia gli embarghi Onu sia quelli decisi dall’Unione Europea non sono stati efficaci nel fermare completamente il flusso di armi verso un Paese o un gruppo oggetto dell’embargo (come dimostra uno del Sipri e dell’Università di Uppsala su 27 embarghi internazionali).
Gli stessi Paesi fornitori, spesso, procedono ad interpretazioni molto restrittive delle categorie di equipaggiamento coperte dall’embargo. Basti pensare agli ingenti quantitativi di armi giunti agli eserciti in ex Jugoslavia da tutta l’Europa, o alle armi arrivate alle milizie somale dallo Yemen e dall’Etiopia, o alle forniture russe, ucraine e cinesi che hanno alimentato gli eserciti etiopico e eritreo, senza dimenticare gli ingenti quantitativi di armi leggere giunti in Rwanda, Liberia, Congo.
Un discorso specifico meritano proprio le armi piccole e leggere, protagoniste assolute di molti conflitti asimmetrici che hanno caratterizzato questi anni. La disponibilità di queste armi, infatti, rappresenta un fattore importante nel determinare il livello di violenza. In contesti di instabilità, la presenza di armi può diventare un potente catalizzatore. La proliferazione delle armi facilita quella della violenza armata e, in una spirale in costante discesa, la disponibilità di armi può creare un clima di paura: gruppi o individui che non si sentono al sicuro si armano per proteggersi, ma ciò viene percepito come una minaccia da altri, che rispondono armandosi a loro volta, dando così vita a una crescente richiesta di armamenti. Incredibilmente su queste armi non esistono neppure adeguate misure di trasparenza che permettano di monitorarne i flussi verso Paesi in cui possano contribuire ad alimentare o esacerbare i conflitti.
Un trattato per frenare l’export
Un Trattato internazionale sui trasferimenti di armi rigoroso, vincolante ed efficace. È l’obiettivo della campagna Control Arms, attiva dal 2003 anche in Italia, dove è rilanciata da Rete Disarmo (disarmo.org). Le richieste, portate all’attenzione dell’Onu, si indirizzano verso un Trattato che, riconoscendo la responsabilità degli Stati sui trasferimenti operati, fissi limiti precisi al commercio di armi basati sul rispetto della legislazione umanitaria e sul possibile uso finale di una certa tipologia di armamento. Si tratta di un nuovo concetto di “responsabilità” che aumenterà sicuramente il livello
di trasparenza e di controllo globale, slegato dalle legislazioni nazionali.
Nel 2007 ha avuto inizio il percorso formale di discussione del Trattato in sede Onu, grazie ad una risoluzione assembleare di fine 2006, votata da oltre 150 Stati membri (e il solo no degli Usa), che ha dato mandato al Segretario generale di far partire il percorso.
Il 2008 è l’anno del confronto in seno a un Gruppo di esperti, composto da rappresentanti di 28 Paesi, tra cui l’Italia. Sauro Scarpelli, del Segretariato internazionale di Amnesty International e uno dei coordinatori internazionali di Control Arms, analizza le prospettive. “Il compito della società civile è quello di controllare il lavoro tecnico del gruppo di studio di esperti governativi, che inviteremo a una sessione di confronto appena prima del loro secondo incontro, a maggio. Cercheremo in quella sede di capire le tendenze e le posizioni anche degli Stati non presenti direttamente nel Gruppo stesso. Ma il punto di svolta si potrebbe avere all’Assemblea generale dell’autunno 2008, quando la parola tornerà agli Stati membri. Ci aspettiamo, in quella sede, un buon supporto alle nostre linee guida per il Trattato.
Cosa ci aspetta dopo l’Assemblea generale?
In quella sede non possiamo aspettarci una buona presa di posizione dal Gruppo di esperti, che probabilmente elaborerà un documento abbastanza neutro. Sono troppi i veti incrociati.
Sarà però importante un’ampia convergenza politica degli Stati sulla necessità di nuovi strumenti di controllo. Purtroppo, anche se ciò dovesse succedere già con l’Assemblea generale di ottobre, per un cavillo legato alla determinazione del budget Onu solo nel 2010 potrà avere inizio la stesura vera
e propria del Trattato da negoziare con tutti gli stati membri.
Molti Paesi avevano fatto richiesta
di entrare nel Gruppo di esperti, cosa molto rara. Per quale motivo?
All’inizio grazie alla grossa pressione esercitata dalla società civile mondiale attraverso la campagna Control Arms e al lavoro di pressione su alcuni Stati sensibili. Poi, capendo che il percorso verso il Trattato era davvero iniziato, gli Stati, in particolare quelli critici verso qualunque controllo, hanno capito che conveniva essere parte attiva e presente del processo decisionale.
Le prossime mosse di Control Arms?
Faremo passare il messaggio che “il mondo guarda” attentamente i passi dei Paesi. Per renderli consapevoli che non potranno facilmente insabbiare questo processo.
—-
Le armi in mano ai civili fanno più morti dei conflitti
Nell’immaginario comune le armi sono strettamente connesse alla polizia e alle forze militari. Tuttavia, dei 900 milioni circa di armi da fuoco attualmente in circolazione in tutto il mondo, il 74% è di proprietà di attori civili o, comunque, non statali.
Questo significa che la quantità di armi detenute da privati è 3 volte maggiore a quella delle armi presenti negli arsenali governativi. E sono civili anche la maggioranza delle vittime di armi da fuoco. Dei circa 1.000 morti al giorno per armi, 250 cadono in guerra o in un conflitto. La restante parte è costituita da omicidi (56%), suicidi (14%) e morti accidentali (5%). Nove vittime su dieci sono ragazzi o giovani uomini.
L’Italia sul podio
Pistole, revolver, fucili, carabine e relative munizioni, mine terrestri ed esplosivi: i dati forniti dalle Nazioni Unite per il 2006 segnalano l’Italia come il terzo Paese, dopo Stati Uniti e Regno Unito, per esportazione di armi, munizioni ed accessori, per un valore di circa 513 milioni di dollari (il 7,3% del totale delle esportazioni mondiali). Se si considera il settore costituito dalle sole pistole e dai revolver (le due principali categorie di armi che fanno parte delle cosiddette small arms), dal 2003 l’Italia occupa stabilmente il secondo posto (dietro alla Germania) nella graduatoria mondiale dell’export, per un ammontare complessivo, nel quadriennio 2003-2006, di 115 milioni di dollari (e una media di circa 40 milioni di dollari all’anno), pari al 15,3% delle esportazioni mondiali.