Ambiente
La Banca mondiale alla prova del clima
In tutto il mondo, manifestazione per chiedere alla Wb di non finanziare più megaprogetti legati ai combustibili fossili
La Banca mondiale discute la strategia sull’energia per il periodo 2011-2021, e il dibattito in corso non promette nulla di buono per la società civile globale. Che per questo motivo martedì 1 marzo 2011 si è data appuntamento presso le sedi della World Bank di Roma, Washington, Londra, Parigi, Berlino e Madrid, che sono state “teatro” di azioni dimostrative per chiedere uno stop ai finanziamenti per petrolio, carbone e gas, che da decenni sono le fonti energetiche più “sovvenzionate” dai banchieri di Washington.
Una “politica” che stona con il comportamento della più grande istituzione multilaterale di sviluppo, la cui presenza è ormai una costante in occasione dei vertici sui cambiamenti climatici.
Il fine della World Bank è “giocare un ruolo” di rilievo anche in questi ambiti, gestendo i miliardi di dollari messi a disposizione a livello globale per la cosiddetta finanza per il clima. Ciò nonostante, la Banca continua a essere grande amica del settore estrattivo, tra i maggiori responsabili dell’aumento delle emissioni in atmosfera che causano il surriscaldamento del Pianeta. Prova ne sia che nel 2010 ha destinato a progetti legati ai combustibili fossili circa 6,6 miliardi di dollari, il 116% in più rispetto all’anno precedente. Finanziamenti in buona parte destinati alla mega centrale a carbone di Medupi, in Sudafrica, la terza più grande al mondo, in uno dei Paesi con il più alto potenziale per gli investimenti nelle energie rinnovabili.
Fino ad oggi la Banca mondiale non ha tenuto in debito conto la serie di critiche mosse nei suoi confronti, come nel caso della Extractive Industries Review del 2003, che chiedeva uno stop definitivo al sostegno al carbone e un graduale abbandono del petrolio entro i cinque anni successivi. Al contrario, come accennato, la Banca mantiene tra le sue priorità negli investimenti energetici il sostegno ai combustibili fossili, senza fissare tra i suoi obiettivi quello di favorire l’accesso dei poveri all’energia, e nonostante l’evidenza decennale di come questi investimenti abbiano favorito la concentrazione della ricchezza nelle mani delle élite al potere, oltre che il controllo delle risorse da parte di multinazionali straniere. Inoltre, la World Bank continua ad avere un approccio basato sul sostegno di grandi progetti infrastrutturali, che sono destinati alla produzione di energia che viene poi rivenduta sui mercati internazionali e non danno risposta ai bisogni energetici delle popolazioni povere dei Paesi dove vengono costruiti gasdotti o oleodotti. Altri precedenti di rilievo non sono certo confortanti. Si pensi al mega oleodotto Ciad-Camerun, ritenuto negli ultimi anni del secolo scorso una sorta di progetto modello e che invece, oltre a provocare estesi danni ambientali, ha favorito con i suoi proventi l’acquisto di armi da parte del governo ciadiano. O ancora la Baku-Tbilisi-Ceyhan, una pipeline (gasdotto) che parte dall’Azerbaigian per attraversare zone ad alto rischio della Georgia e una vasta parte del territorio del Kurdistan turco, la cui realizzazione è stata subordinata ad accordi capestro a vantaggio delle multinazionali che compongono il consorzio costruttore, tra cui la britannica British Petroleum.
È per questo che, impiegando anche le nuove tecnologie, come Twitter e Facebook, gli attivisti hanno invitato la Banca mondiale a imparare le lezioni del passato. Visti anche i recenti sviluppi c’è però poco da essere ottimisti.