Esteri
Invisibili di guerra
Ancora oggi, decine di iracheni fuggono dal conflitto e si rifugiano in Giordania. Dove il loro status non è riconosciuto, e la loro vita sospesa
Al Karama (frontiera Giordania-Iraq) – Due doppi archi di cemento nel deserto sembrano dividere il nulla. Solo in apparenza. Questa frontiera -invece- è l’uscita di sicurezza dall’inferno. Di là, l’Iraq. Di qui, la Giordania. Di là, civili in fuga. Di qui, profughi in attesa. Da oltre cinque anni questo posto di confine è una delle valvole di sfogo per gli iracheni che scappano dalla guerra. “Ora ne passano pochi, non più di una ventina al giorno”, dice la guardia di frontiera giordana. In passato erano migliaia, un esodo quotidiano che da un anno è in parte diminuito. L’Iraq è lì, in fondo alla lunga colonna di tir che attendono di entrare in Giordania.
La statale M 40 è una lingua d’asfalto di 350 chilometri, quasi senza curve fino alla capitale Amman. Stamani s’incontrano solo camion. In auto l’ha appena percorsa Addi Nona Sadak, 62 anni e mani che sembrano badili. Dopo quasi un lustro di faticosa convivenza con le violenze quotidiane a Mosul, ha mollato tutto. “Era impossibile resistere ancora”, racconta.
E mostra il nuovo passaporto iracheno con la copertina blu. È l’unico riconosciuto a livello internazionale. Senza questo documento la frontiera giordana resta sigillata anche per chi chiede pietà dalla guerra. La guerra -quella delle cifre- prosegue però anche oltre confine, nel Regno Hashemita di Giordania. Il petrolio arriva dall’Iraq e può varcare la frontiera di al-Karama molto più facilmente dei profughi. Quanti sono gli iracheni qui? Nel 2007 erano tra 450mila e mezzo milione, secondo una stima dell’Istituto di ricerca norvegese Fafo accettata anche dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur). Ma sarebbero fino a 700mila, stando ad altre organizzazioni. “Non più di trecentomila”, ci spiega invece il responsabile dell’ufficio passaporti dell’ambasciata irachena ad Amman. Nell’ufficio per il pubblico sono accatastate pile del passaporto blu divenuto ormai un lasciapassare indispensabile. Molti profughi hanno ancora quello dei tempi di Saddam. Ora corrono qui per ottenerne uno nuovo. Sul muro esterno dell’ambasciata sono appesi i lunghi elenchi con le liste d’attesa per ritirare il nuovo certificato.
Rientrare in patria non è solo una questione di documenti validi. “Non possiamo tornare in Iraq a causa dei troppi pericoli. Ma qui soffriamo, perché costa troppo sopravvivere: è un po’ come essere sospesi tra la vita e la morte” è lo sfogo di Khamis Safaa. Ha 45 anni. Dal 2004 abita in un appartamento dall’intonaco scrostato al secondo piano di una palazzina alla periferia di Amman. Lavorava a Baquba, è sunnita, dice che cinque suoi familiari sono stati uccisi dalle milizie sciite. Per lui questa non è la prima guerra. Aveva già combattuto sul fronte Iran-Iraq nel 1986. Il braccio sinistro offeso resta la cicatrice indelebile di quel conflitto. “Non posso più lavorare” ci spiega. L’unico reddito è quello del primo dei suoi 4 figli, l’equivalente di 140 euro al mese. Ci accoglie in un salotto col divano e la televisione accesa. Ma precisa subito che questi mobili che non li ha comprati. “Li ha lasciati la famiglia che viveva in questa casa”, e che è partita per l’Australia dopo aver vinto la “lotteria” dell’Onu per i super-fortunati trasferiti in un altro Paese. Nuova vita per i pochissimi che partono. Vecchi mobili per i moltissimi che restano.
In questo enorme quartiere con le case basse di East Amman -sobborgo orientale a ridosso della dogana commerciale- vive la maggior parte degli sfollati dall’Iraq. Come il ventiduenne B.Q. (“Scriva solo le iniziali per favore, la mia famiglia è ancora a Baghdad e temo per la loro sicurezza”): un’autobomba due anni fa si portò via la parte inferiore della sua gamba sinistra provocando danni anche a una retina.
Negli ultimi mesi si è intensificato dalla zona di Mosul l’esodo di cristiani. “Siamo vittime perché minoranza” sostiene l’ingegnere Mansour Abou Rami, un cristiano caldeo che vive ad Amman dal 2005 con la famiglia. “Chiedo solo di vedere la mia nipotina di due anni che vive a Basilea” implora sua moglie.
Gli iracheni sono raccolti soprattutto ad Amman, Zaqra, Irbid. Per loro la Giordania assomiglia a un’immensa sala d’attesa, un non-luogo prima dell’agognato quanto improbabile approdo in Canada, Australia, Stati Uniti. “Una stazione con partenze e arrivi. Ma non sai mai qual è il tuo binario” sintetizza Mahmoud Agha, corrispondente della tv irachena al-Sharqiya. Il fenomeno “è molto più complesso di quello che sembra”, sostiene l’italiano Marco Rogia, che lavora all’ufficio Acnur per l’Iraq con sede qui in Giordania. Gli iracheni non possono svolgere alcuna attività senza permesso, che viene accordato raramente ai profughi. Chi sgarra e lavora illegalmente, è espulso. Il permesso non ce l’hanno nemmeno le venditrici di sigarette accovacciate vicino alla centralissima moschea al-Husseini di Amman. Tra loro, Salima Muammad Hussein, 49 anni, sciita, avvolta nel suo hijab, velo nero lungo fino ai piedi. È scappata da Bassora due anni fa. Ha un permesso regolare invece Ali Hamra, laurea alla London School of Economics di Londra, titolare di un’azienda alimentare con uffici qui e a Baghdad. Fuggì nel 1992 dopo la prima guerra del Golfo. La sera gioca a domino nel caffè Bab al Sharki di Amman. Gli avventori ai tavolini sono tutti iracheni: “Siamo seduti insieme, sunniti e sciiti. Senza nessuna differenza”, sorride Ali. “Come accadeva una volta in Iraq”. Ma sono pochi gli esuli iracheni che frequentano il caffè la sera. Gli altri -quasi tutti- restano invisibili. E non sono nemmeno raccolti in grandi campi profughi come i palestinesi, che da queste parti sono circa tre milioni. Per il governo giordano, gli iracheni fuggiti dalla guerra sono “ospiti”. Non sono ufficialmente nemmeno rifugiati ma richiedenti asilo. “Asylum seeker” è scritto anche sul foglio dell’Acnur intestato a Amin Haider Ahmed, sciita di Bassora.
Sul certificato dell’Onu sono allineate le foto dei suoi 11 figli. Numero di matricola 170-C-192, sembra il codice di prenotazione di un treno di ritorno per l’Iraq. Che forse non passerà mai.
L’esperta: sono confinati in un limbo
Una nuova categoria del dolore
I profughi iracheni in Medio Oriente vivono in una situazione unica: come non accade in alcun altro luogo al mondo. “Non sono nessuno, non hanno un status” dice di loro un’esperta che ha lavorato in aree di crisi ovunque nell’ultimo decennio: dall’Afghanistan alla Liberia, dall’Indonesia al Darfur. Margarita Tileva è la coordinatrice regionale per Giordania, Siria e Libano dell’International Catholic Migration Commission (Icmc), organizzazione con sede a Ginevra impegnata nell’assistenza umanitaria, scolastica e sanitaria agli iracheni fuggiti nei Paesi confinanti a causa del conflitto. Nel suo ufficio di Amman, ci spiega che la situazione dei profughi iracheni da un lato non è molto diversa da rifugiati in altre aree del pianeta, costretti ad abbandonare le terra d’origine per minacce alla propria sicurezza o guerre. Però -a oltre cinque anni dall’inizio del conflitto tra il Tigri e l’Eufrate- gli iracheni non sono come gli altri. Il governo giordano li chiama addirittura “ospiti”. “Vengono davvero considerati ‘ospiti’. Possono restare finché non provocano problemi” sottolinea Tileva. La Giordania non ha firmato le Convenzioni di Ginevra e -secondo l’esperta- ha le sue ragioni per cui non li riconosce come rifugiati né utilizza questa definizione per i profughi iracheni. “Altrimenti -è il suo ragionamento-
i Paesi ospitanti dovrebbero farsi carico di obblighi come trovare loro un’opportunità di trasferimento altrove. Questo spaventa non solo la Giordania, ma anche la Siria e il Libano. Questi Paesi devono già affrontare serie difficoltà con le fasce povere della loro popolazione”. Tra l’altro il governo di Amman ospita sul suo territorio oltre due milioni di palestinesi. Ma i palestinesi -precisa la coordinatrice dell’Icmc- hanno in molti casi la cittadinanza o comunque vivono in campi profughi e ricevono assistenza da un’apposita agenzia Onu. Così come -per citare un altro esempio- gli sfollati del Sud Sudan che da anni si trovano nella capitale Khartoum: “Anche in questo caso -sottolinea la responsabile dell’organizzazione svizzera- hanno almeno una cittadinanza e sono liberi di muoversi”.
Gli iracheni invece no. Il certificato di “richiedente asilo” non dà diritto al permesso di residenza né di lavoro. Non possono svolgere alcuna attività né lasciare il Paese. E allora, le chiediamo, che cosa sono? “Sono confinati in un limbo. Molti avevano sperato in un miglioramento, mentre l’Iraq invece è andato peggiorando. In altri casi non esiste alcuna possibilità di ritorno a causa delle contınue violenze. Tutti capiscono che la popolazione irachena rimarrà qui in Giordania molto più a lungo di quanto ci si aspettasse”. L’alternativa al rientro in Iraq può essere la domanda d’asilo in un altro Paese. Su quasi mezzo milione di iracheni in Giordania, solo poco più di 8mila hanno finora beneficiato del trasferimento altrove. Secondo Tileva, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati può comunque fornire aiuto ai profughi iracheni, proprio perché sono privi di uno status legale.
La condizione di “richiedente asilo” garantisce almeno una forma minima di protezione: “Li chiamiamo rifugiati in base alla terminologia internazionale perché hanno lasciato il loro Paese -spiega-. Ma legalmente non sono riconosciuti come tali. E forse -conclude- per gli iracheni fuggiti in Giordania
e Siria bisognerebbe ora pensare a una nuova categoria”.
Esportare profughi
La guerra voluta dagli Stati Uniti in Iraq nel 2003 per “esportare democrazia” e abbattere il regime di Saddam Hussein in questi anni ha esportato soprattutto profughi. Oltre due milioni si sono riversati fuori dai confini. Altri 2,2 milioni -secondo stime Onu- sono sfollati, cioè fuggiti dalle proprie case senza però abbandonare l’Iraq. Nella regione, è la Siria il Paese che ne ha accolti il maggior numero: 1,2-1,3 milioni. Una presenza che ha provocato pesanti ripercussioni su un’economia già fragile. La maggior parte degli iracheni vive nei grandi centri urbani e soprattutto alla periferia di Damasco, dove tra l’altro l’elevatissima richiesta di alloggi ha causato una crescita esponenziale degli affitti (intorno al 300%, secondo alcune fonti).
In Siria, circa 400mila iracheni sono ufficialmente registrati presso l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur) e un quarto di questi riceve assistenza. In Giordania la loro presenza è stimata intorno al mezzo milione. Entro la fine del 2008, l’Acnur ritiene di poter registrare ufficialmente circa 100mila iracheni in Giordania, che comunque in molti casi preferiscono rimanere “anonimi” per il timore di essere individuati ed espulsi. Secondo le autorità giordane, circa 150mila iracheni sono comunque titolari di un permesso di residenza rinnovabile. Dall’Iraq moltissimi civili hanno cercato una via di fuga anche in Libano (30-40.000), Egitto (circa 120.000), Iran (57.000), Turchia (5.000) e altri Paesi del Golfo arabo (200.000).
La fuga di Nadir
Amman – “Avevo un ottimo lavoro, in una clinica e in un ospedale. Nessuno aveva motivi di risentimento contro di me”. Il dottor Nadir Khoshaba era responsabile del dipartimento di chirurgia cardiovascolare dell’ospedale “Al Nafis” di Baghdad. Per un decennio ha insegnato anche all’università della capitale e di altre due città irachene. Poi qualcosa è cambiato. “Era il 23 giugno 2007. Qualcuno mi telefonò minacciandomi: se vai al lavoro ti uccidiamo”, ci racconta quando lo incontriamo davanti agli uffici della Caritas di Amman. La sua “colpa” è di appartenere alla comunità scientifica dell’Iraq. E di lavorare, tra l’altro, per un’organizzazione umanitaria americana. “In tutto il Paese -dice- hanno preso di mira medici e scienziati”. Lui non s’è arreso subito. “All’inizio ho presentato denuncia alla polizia”. Non è servito a nulla. Poi la decisione irrevocabile: “Avevo paura di un sequestro. Ho preso un aereo per la Giordania con mia moglie e le mie due figlie, studentesse universitarie”. Il chirurgo ora non indossa più il camice verde, solo un semplice cardigan blu. “Qui non posso fare nulla, nemmeno trovare un impiego come medico”, il suo tono tradisce amarezza ma anche tanta dignità. “Perdo tempo a casa. In pochi mesi io e la mia famiglia saremo sul lastrico”. Gli americani -sostiene- “hanno distrutto l’Iraq, non so se di proposito oppure no. So che tutto è devastato. Ho 58 anni, ho sempre vissuto lì. Ricordo bene che cos’era il mio Paese prima dell’invasione degli Usa”. Tornare? “No” risponde secco il dottor Khoshaba. “Sono nato a Kirkuk, le mie radici sono assire. Amo tutto ciò che ha un nome iracheno. Ma non posso ritornare finché non cambia la situazione. E questo richiederà molto tempo”.