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Opinioni

In un mondo senza Stati

Dal Nord Africa al Medio Oriente, cresce il numero di coloro che abitano in Paesi non più in grado di garantire scuole, ospedali, servizi demografici, pensioni, reti di trasporto, sistemi fiscali definiti e organizzati da amministrazioni pubbliche. Un contesto che rende impossibile esercitare ogni forma di cittadinanza, e porta ad emergere strutture di potere basate sull’affiliazione a clan o pezzi di Stati teocratici, come l’Isis. "Sconfiggere il terrorismo in queste condizioni è davvero complesso" scrive Alessandro Volpi

È difficile immaginare una parte del mondo dove non esiste alcuna reale autorità dello Stato, dove non esistono scuole, ospedali, servizi demografici, pensioni, reti di trasporto, sistemi fiscali definiti e organizzati da amministrazioni pubbliche. Eppure una condizione simile sta divenendo sempre più diffusa in un’area che dal Nord Africa si estende fino al corso del Nilo e al Medio Oriente; alcune decine di milioni di persone vivono ormai in Stati “falliti”, nei quali non rimane traccia di un’idea, per quanto molto generale, di cittadinanza. 


Sembra di essere ripiombati in una dimensione ottocentesca caratterizzata dalla presenza di grandi imperi morenti, a cominciare da quello ottomano e da quello russo, incapaci di svolgere qualsiasi funzione civile e in preda a continui sconvolgimenti intestini, alimentati da pulsioni religiose e da visioni nazionali perennemente litigiose. 
Il fallimento delle primavere arabe, gli interventi militari finalizzati ad esportare la democrazia, la pigrizia internazionale di fronte ad endemiche lotte intestine in zone cruciali come la Siria, il radicalizzarsi degli scontri religiosi, la crisi economica e i continui sbalzi dei prezzi globali di materie prime e beni alimentari hanno finito per demolire le fragili fondamenta statuali in punti molto sensibili del pianeta, lasciandole prive di una prospettiva di comune appartenenza laica e pubblica.

Senza Stati, le geografie dei territori si sono organizzate secondo antiche e nuove aggregazioni profondamente esclusive. 
Sono nati molteplici governi interni, in reciproco conflitto, che hanno fratturato e isolato aree già assai povere, assumendo fisionomie molto difficili da comprendere e con cui è praticamente possibile interloquire. In diversi casi pare che sia scomparso il senso stesso della storia e sono riemerse strutture di potere basate sull’affiliazione a clan sostenuti da famiglie premoderne e rigorosamente patriarcali, in altri si sono formati pezzi di Stato ferocemente teocratici, connotati dal monopolio dell’obbedienza a una fede assoluta. In entrambe le condizioni non c’è spazio per una nozione di cittadinanza ma prevale una militanza fanatica che si fonda sulla violenza e sul rifiuto totale del confronto con le differenze. Senza Stato e senza cittadinanza, soppiantati da bellicosi particolarismi autoreferenziali, non esiste neppure un’idea di mercato dotato di regole e strumenti condivisi. In realtà prive di monete proprie, di legislazioni rispettate e di forme di controllo realmente legittimate, l’unico mercato possibile è quello sommerso che quasi sempre finisce per assumere contorni criminali e per gestire, senza generare una ricchezza collettiva, materie prime, risorse energetiche e persino derrate alimentari.

Soprattutto, senza Stato e senza cittadinanza non risulta possibile alcuna traccia di secolarizzazione, di definizione di una dimensione autonoma e compiuta dell’esistenza umana che non abbia bisogno di una giustificazione di matrice religiosa. Proprio in quest’ultimo aspetto si pone forse il principale pericolo che può scatenare uno scontro di civiltà. Se la pedagogia dei micro Stati teocratici mira a formare non cittadini, ma credenti che concepiscono le istituzioni civili, l’arte, la musica, la letteratura, i saperi, le scienze e le innumerevoli espressioni della bellezza e dell’intelligenza dell’umanità come un intralcio, un peccaminoso diversivo rispetto al sacrificio e al martirio richiesti dalla fede assoluta, allora la guerra di religione assume i contorni del mezzo più efficace per permettere di approdare alla salvezza. Questo ripudio del principio di secolarizzazione è ancora più preoccupante perché non si ferma entro i confini geografici delle realtà dove non esiste una cittadinanza ma coinvolge anche i credenti che vivono in Stati laici e democratici considerati alla stregua di illegittime e ostili sovrastrutture rispetto all’obbedienza assoluta alla fede.

Sembra non esistere infatti una soluzione di continuità fra la teocrazia territoriale dell’Isis e la volontà di martirio dei giovani credenti trapiantati in Europa ma profondamente legati allo spazio senza tempo e senza alcuna dimensione terrena compreso fra Siria e Iraq. Sconfiggere il terrorismo in queste condizioni è davvero complesso.

* Università di Pisa
 

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