Ambiente / Attualità
L’impronta dell’uomo che minaccia i siti tutelati dall’Unesco
Secondo una ricerca australiana pubblicata a inizio febbraio, il 63% dei Natural World Heritage Sites sono stati danneggiati da attività umane negli ultimi vent’anni. Il 91% di questi sono foreste e l’Asia è il continente più colpito. Intervista al responsabile dello studio
“Che cosa fareste se il governo italiano buttasse giù il Colosseo per fare degli appartamenti?”. James Allan è il responsabile del team di ricercatori provenienti dalle università del Queensland in Australia e dalla North British Columbia: insieme alle associazioni Wildlife Conservation Society (Wcs) e all’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucne) ha pubblicato sulla rivista Biological Conservation, a inizio febbraio 2017, uno studio sull’espansione delle attività umane nei luoghi protetti dall’Unesco come patrimonio naturale dell’umanità. “I Natural World Heritage Sites -spiega- vanno considerati alla stregua dei grandi patrimoni culturali del Pianeta”.
Il Parco di Yellowstone negli Usa, il Parco Nazionale del drago di Komodo in Indonesia, il Parco e Santuario Nazionale di Manas in India e anche il Chitwan National Park in Nepal, l’Area di Conservazione del Pantanal in Brasile o il Parco Nazionale delle Serengeti in Tanzania sono alcuni tra i siti naturali protetti dalla convenzione internazionale siglata 45 anni fa da più di 190 Paesi. Su 229 siti naturali riconosciuti dall’Unesco come eredità naturale dell’umanità, 145 luoghi, il 63%, sono stati danneggiati dall’impronta umana negli ultimi 20 anni. Ogni sito ha perso mediamente dal 10 al 20% di superficie protetta dal 2000 ad oggi. “I danni sono causati maggiormente dalla agricoltura espansiva, dall’aumento della densità di popolazione, dall’aumento dei pascoli per l’allevamento all’interno dei confini protetti ed infine, certamente, dall’aumento delle infrastrutture”, spiega James Allan ad Altreconomia.
Il 91% dei luoghi “colpiti” sono foreste, con l’Asia che spicca tra i continenti più colpiti, registrando in 16 anni un aumento di interventi umani nelle aree protette di quasi il 10%. Nel Santuario naturale del Manas l’impatto dell’uomo è passato dal 11,8% nel 1993 al 17% nel 2009, aumentando di più del 5%. Se consideriamo il consumo di foresta, il Parco internazionale della pace Waterton-Glacier in Canada è al primo posto con 540,7 chilometri quadrati in meno in 11 anni. Il Parco Nazionale del Grand Canyon (Usa) ha registrato una perdita di quasi il 10% con 38,2 chilometri quadrati sottratti e la Riserva della Biosfera del Rio Plátano (Honduras) ha perduto 365 chilometri quadrati in un decennio. Anche per il più famoso tra i parchi, il Parco di Yellowstone sono 217 i chilometri quadrati persi in una decina di anni.
Per quanto riguarda l’Europa, la ricerca ha ottenuto risultati parziali perché -come spiega Allan- “i siti sono stati molto modificati nel passato e adesso risultano già alterati”. Rimane da considerare che “la pressione del turismo e il cambiamento climatico continuano oggi a minacciarli, ma nella ricerca non siamo riusciti a quantificare questi fenomeni perché i metodi per la raccolta dei dati devono essere globalmente uguali per poterli comparare tra loro”.
“Le perdite -continua Allan- stanno aumentando. Portando problemi e gravi conseguenze ai Paesi, che avranno danni sia ambientali sia di prestigio culturale. Anche gli abitanti subiranno impatti, in particolare le comunità locali che vivono nei pressi dei siti”. Una volta danneggiato, un luogo lo “è per sempre”, afferma Allan-. “Un sito naturale porta opportunità di crescita e turismo sostenibile per il Paese, che in questo modo andranno persi”. Davanti a questa situazione si aprono due scenari. Il primo è continuare senza intervenire: “I siti verranno danneggiati e compromessi, diventeranno sempre più piccoli e il loro valore andrà perso” spiega il ricercatore. Ma c’è un secondo scenario: “Agiamo immediatamente. Impieghiamo questo studio per richiamare alla lotta per i nostri patrimoni. Non lasciamoli costruire in un sito naturale. Se prendiamo una forte posizione possiamo salvare i nostri patrimoni naturali”.
Il team di ricercatori lancia un appello all’Unesco con la speranza che la loro ricerca sia riconosciuta e inserita ufficialmente nel sistema di monitoraggio. “I satelliti per il rilevamento e la mappatura non mentono e ci mostrano una rappresentazione onesta di che cosa stia accadendo nei siti”. La responsabilità, però, rimane in capo ai singoli Stati perché malgrado la Convenzione del 1972 che impegna gli stati a preservare il patrimonio naturale, l’Unesco “è solo una piattaforma” per coordinare le attività. “Il concetto di patrimonio mondiale è grande, ma abbiamo bisogno dei Paesi per farlo rispettare”.
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