Esteri
Il ritorno dei Maya
La profezia vuole che il 2012 sia un periodo di grande cambiamento. In Guatemala, dove gli indigeni provano ad alzare la testa, continua la discriminazione
Secondo la cosmovisione maya, un baktun corrisponde a un periodo di 400 anni. Con il 2012 si chiude il tredicesimo baktun, un ciclo galattico di 5200 anni. Secondo il “Chilam Bilam”, l’antico testo che contiene varie profezie sul popolo maya, inclusa la previsione della sottomissione spagnola, alla chiusura del tredicesimo baktun corrisponde un periodo di grande turbolenza e cambiamento. Nella regione Ixil del Dipartimento de El Quiché, in Guatemala, la profezia viene interpretata come “il ritorno del popolo maya”. Forse perchè fino a una ventina d’anni fa, nelle scuole del Guatemala, si insegnava che i maya avevano lasciato la terra per emigrare sulla luna. Oggi il popolo Ixil del Quiché conta una popolazione quattro volte superiore all’epoca della concquista spagnola. El Quiché è anche il Dipartimento dove la resistenza ai governi golpisti e alle dittature militari che si sono succedute dal ‘54 al 1996 è stata più forte. Ed è quindi quella che ha pagato il prezzo più alto in termini di vittime.
Centoquattordici massacri accertati per un numero imprecisato di morti: il Guatemala è l’unico Paese al mondo ad avere una lista ufficiale di massacri.
Il Capodanno maya che qui si celebra il 22 febbraio ha un molteplice significato: spirituale, astrologico, culturale e politico. Negli ultimi anni fra le comunità Ixil si è avviato un processo di recupero e rafforzamento delle autorità ancestrali, ovvero le istituzioni di governo delle comunità indigene. In ogni aldea (comunità) gli anziani eleggono un proprio sindaco che per un periodo determinato assume il ruolo di portavoce. Non è un ruolo di rappresentanza né di delega: il sindaco ha il dovere di riunire la comunità per prendere le decisioni importanti a dare voce all’esterno. In occasione del capodanno si eleggoni i sindaci indigeni con il rituale del passaggio del bastone. Le autorità indigene sono ufficialmente riconosciute dalla costituzione guatemalteca, che prevede un sistema duale di governo ladino-indigeno. La realtà delle cose però è ben diversa e le rappresentanze indigene tendono ad essere politicamente marginalizzate e solo recentemente cominciano a riorganizzarsi.
Intorno alle celebrazioni del capodanno si svolgono discussioni e incontri sulla situazione delle comunità Anche la manifestazione annuale per ricordare le vittime dei massacri cade nello stesso periodo, il 25 febbraio. Quest’anno il tema principale di dibattito è stato quello della resistenza allo sfruttamento delle risorse naturali da parte delle multinazionali straniere. Prima fra tutte l’italiana Enel Green Power.
El Quiché è molto ricco d’acqua e di minerali: qui la terra è particolarmente fertile, e il mais si raccoglie due volte l’anno.
Le comunità indigene ormai da cinque anni conducono una battaglia contro la centrale idroelettrica di Palo Viejo sul fiume Cotzal. Un impianto costruito da Enel dentro la Finca San Francisco, un enorme latifondo dove si coltiva caffè, destinato principalmente alla catena Starbucks.
La famiglia Broll, di origine italiana, si insediò nella zona all’inizio del secolo scorso, su un territorio di mille ettari. Nel tempo, approfittando del terrore seminato dall’esercito nella zona durante la guerra civile, la finca si è ingrandita sottraendo illegalmente la terra alle comunità indigene e campesine.
Oggi è un territorio di migliaia di ettari, pattugliata da forze di sicurezza privata armata, e dove per guadagnare 3 euro al giorno occorre raccogliere un quintale di caffè. I lavoratori stagionali che giungono da fuori per la raccolta del caffè sono ammassati in grandi baracche chiamate “galeras”. I sacchi pieni vengono trasportati a mano dagli operai, non solo sui pendi ripidi e impervi ma anche -incomprensibilmente- sulle strade carrabili. Dentro la finca vivono stabilmente un migliaio di famiglie, raggruppate in una trentina di comunità che non si sono mai emancipate dalla sottomissione e restano ancora oggi in uno stato di semi-schiavitù. Sino a qualche decina di anni fa l’esecuzione sommaria dei lavoratori era una pratica abituale. Inoltre per dodici anni chiunque ha voluto transitare in macchina nella finca ha dovuto pagare un dazio di 10 quetzales (equivalente a 1 euro). Dopo le cinque del pomeriggio, invece, nessuno poteva entrare o uscire.
A partire dagli Accordi di pace firmati nel 1996, nonostante la situazione di ineguaglianza e di impunità nel Paese non sia sostanzialmente cambiata, nuove forme di resistenza pacifica stanno lentamente emergendo. Il progetto idroelettrico di Palo Viejo è un caso esemplare di inquietanti alleanze fra multinazionali, grandi latifondisti e un governo per niente rappresentativo della composizione sociale del Paese. Nonostante una risoluzione delle Nazioni Unite e una convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (la numero 169) affermino a chiare lettere che le popolazioni indigene hanno il diritto di essere consultate prima dell’avvio di qualsiasi progetto che comporti un cambiamento irreversibile sul loro territorio, Enel ha avviato i lavori di costruzione senza alcun processo di dialogo o concertazione. Dialogo che non è mancato, invece, con l’ex-sindaco di San Juan Cotzal, attualmente in carcere per aver incitato la folla al linciaggio di un poliziotto. Con lui Enel si era impegnata a versare un contributo annuale al municipio.
Lo scorso anno, le comunità hanno bloccato per diverse settimane la strada principale nel villaggio di San Felipe Chenlá, impedendo ai mezzi dell’impresa di raggiungere il cantiere. Enel ha a quel punto ritenuto che fosse arrivato il momento del “dialogo”. Un dialogo imposto alle comunità attraverso l’incursione di mille soldati, che a volto coperto hanno seminato il panico fra gli abitanti. I traumi della guerra civile sono ancora freschi e non era mai successo negli ultimi 15 anni di rivedere uomini armati in passamontagna alla ricerca dei leader indigeni, contro i quali sono stati spiccati ordini di cattura per reati sproporzionati e ingiustificati, fra i quali “atti di terrorismo”.
Oggi l’impianto è praticamente ultimato e le comunità non hanno ancora avuto risposta alla richiesta di condividere gli utili del progetto. I consigli indigeni chiedono infatti ad Enel Green Power di potersi associare nella gestione dell’impianto, in virtù dei loro diritti ancestrali. Una richiesta maturata in un clima di tensione, quando è apparso chiaro che negoziare era l’unica possibilità per evitare una repressione violenta. La mobilitazione ha per ora marcato una piccola ma importante vittoria: la cancellazione dei dazi e l’abolizione dell’orario di transito.
Ma nei pressi della finca San Francisco c’è dell’altro che si muove. Lo scorso dicembre la comunità campesina di El Regadío si è ripresa 800 ettari di terra, abbattendo le recinzioni che avevano relegato il villaggio sul fianco della montagna. El Regadio si trova in una valle meravigliosa, ai piedi delle montagne dove l’acqua affiora spontaneamente in abbondanza.
Grazie all’aiuto del Cuc, Comitato di unità contadina, branca guatemalteca di Via Campesina, la più grande organizzazione contadina mondiale, si è riusciti a risalire alla documentazione che dimostra che la terra appartiene alla comunità. I proprietari della finca hanno reagito inviando la sicurezza ad infastidire i contadini, che durante una delle diverse incursioni hanno disarmato le guardie e consegnato le armi all’ufficio dei diritti umani della vicina Uspantán. Anche in questo caso la reazione del governo è stata quella di criminalizzare i contadini associandoli al narcotraffico e al terrorismo, un atteggiamento che ricorda molto da vicino la strategia controinsorgente dei governi golpisti.
Il leader della comunità è stato arrestato e per rappreseglia i paramilitari, al soldo della famiglia Broll, hanno tagliato tutti i campi di mais causando a El Regadío un problema di scurezza alimentare.
La partita per una pace giusta in Guatemala è ancora ardua e faticosa. L’Italia in questa faccenda dovrebbe astenersi dal gioco, o almeno cambiare radicalmente ruolo. —
Dalle armi allo Stato
Otto Fernando Pérez Molina, dal 14 gennaio 2012 presidente della Repubblica del Guatemala, all’inizio degli anni ‘80 era un militare in forza all’esercito del Paese e quindi ai servizi segreti.
In quegli anni, e fino al 1996, in Guatemala era in corso una guerra civile: anche Pérez Molina (nella foto in alto con l’omologo messicano Felipe Calderon) fu impegnato in azioni di contro insurrezione nel dipartimento del Quiché, e in particolare nel triangolo Ixil, la regione in cui viene costruita la diga di Palo Viejo da parte di Enel Green Power. Quando sono passati oltre 15 anni dalla firma degli Accordi di pace, il “Guatemala soffre ancora gli effetti di una guerra civile durata 36 anni” scrive Human Rights Watch nel proprio rapporto 2012 dedicato al Paese. A metà marzo un ex soldato delle forze speciali del Guatemala, Pedro Pimentel, è stato condannato da un tribunale locale a 6.060 anni di carcere, per aver partecipato a un massacro nel villaggio di Dos Erres, nel quale rimasero uccise 201 persone. Nell’agosto dello scorso anno la stessa sorte era toccata ad altri quattro soggetti che avevano partecipato alla strage. “Dei 626 massacri documentati -spiega Human Rights Watch- il caso della comunità Dos Erres è solo uno dei quattro che hanno portato alla condanna dei soggetti coinvolti”. (lm)