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Il lato buio del denaro – Ae 87 –

Dai mutui subprime americani alle code davanti alle banche inglesi: siamo nel bel mezzo di uno shock finanziario globale. Che non risparmierà i tanto propagandati fondi pensione Scene da Grande depressione, anno di grazia 1929, o da crac argentino, datato…

Tratto da Altreconomia 87 — Ottobre 2007

Dai mutui subprime americani alle code davanti alle banche inglesi: siamo nel bel mezzo di uno shock finanziario globale. Che non risparmierà i tanto propagandati fondi pensione


Scene da Grande depressione, anno di grazia 1929, o da crac argentino, datato 2001? I risparmiatori in coda davanti alle filiali della banca inglese Northern Rock (nella foto in basso) hanno dato un’espressione fisica e visiva allo choc finanziario cominciato con l’esplosione dei “mutui subprime” statunitensi. Anche i teorici della grande finanza hanno dovuto ammettere che qualcosa non va. Il ministro Tommaso Padoa Schioppa, per dire, ha riconosciuto che i turbamenti borsistici toccheranno anche i fondi pensione. E dire che fino a pochi mesi prima, il ministro con tutto il governo, le principali forze politiche, i maggiori sindacati, gli opinionisti e gli esperti dei maggiori quotidiani, insomma l’intero establishment politico-economico, cantavano le lodi dei fondi pensione, spingendo i lavoratori a destinarvi il proprio trattamento di fine rapporto (tfr). È stata una campagna a senso unico, con pochissime voci dissonanti.

Eppure la risposta dei lavoratori, stando alle cifre disponibili, è stata tutt’altro che massiccia: 900 mila nuove adesioni ai fondi,  pari al 7,3% dei potenziali interessati (12,2 milioni). Considerando il milione e 800 mila già iscritti, si arriva a 2,7 milioni, ossia poco più del 22% del totale. A questa cifra andranno aggiunti i “silenti” (quantificabili sono a fine anno), ossia i lavoratori che non hanno espresso alcuna preferenza e che saranno iscritti ai fondi in base al discutibile principio del silenzio-assenso.

Il ministro Cesare Damiano e il presidente della Covip, la commissione di controllo sui fondi pensione, sostengono in realtà che gli obiettivi preventivati (l’adesione di almeno il 40% dei lavoratori) saranno sostanzialmente raggiunti proprio grazie ai “silenti”, ma basano i loro calcoli su una “platea” più ristretta: non i 12,2 milioni di lavoratori del settore privato, ossia tutti i destinatari della “riforma”, ma solo quelli attivi in categorie con fondi negoziali preesistenti (in sostanza quelli più facilmente raggiungibili dai sindacati). La base diventa così di solo otto milioni, e il nostro 22% si trasforma in un 33,7%.

Risulta in ogni caso evidente che la fortissima pressione esercitata a a colpi di spot, inserzioni pubblicitarie, comizi politici ha avuto un effetto ben inferiore al suo potenziale impatto. È lecito pensare che la lunga serie di scandali borsistici degli ultimi anni e i toni assertivi e dogmatici di certe previsioni a lunghissima gittata sui rendimenti borsistici futuri, abbiano stimolato la diffidenza di molti lavoratori.

E dire che sulla grande stampa non sono comparsi servizi come quello dedicato da Ae, nel marzo 2005, al fallimento di uno dei più antichi fondi pensione italiani, quello dei lavoratori della Banca commerciale italiana. E si è poco discusso dei molti lati oscuri di una riforma previdenziale tutta protesa ad affiancare un “pilastro privato” al sistema pensionistico pubblico in via di dimagrimento. Non è stata una scelta neutra, né dettata da reali esigenze di bilancio, ma un progetto tutto politico, come evidenziato da una serie di servizi cominciati nel maggio 2004 (intervista con Paolo Andruccioli, autore di “La trappola dei fondi pensione”) e culminati fra 2006 e 2007 con articoli e commenti sulla reale portata dell’operazione tfr.



Nel Paese dei conflitti d’interesse e della stampa assoggettata al mondo delle imprese, c’è un altro filo rosso che corre lungo la storia di una rivista impegnata a cogliere gli elementi di fondo del capitalismo italiano. Già nel ’99 i primi articoli su Ae mettevano a fuoco il crescente peso del sistema bancario, alle prese con gli esordi di una politica di fusioni e concentrazioni che si è manifestata in tutta la sua evidenza solo negli ultimi anni. Da qualche anno i grandi gruppi bancari figurano in testa a tutte le classifiche per volume d’affari e redditività e hanno allargato i tentacoli nel mondo dell’imprenditoria. Nel solo 2005, definito su Ae (giugno 2006) “l’anno record” delle banche, i bilanci dei sei maggiori gruppi hanno evidenziato una crescita media del 70%, in assoluta controtendenza rispetto a un Pil stagnante. Fra gli effetti più recenti dell’egemonia acquista,  c’è quel “bisogno di indebitarsi” (Ae aprile 2006) che ha spinto verso l’alto le cifre dei prestiti alle famiglie per investimenti immobiliari e consumi correnti.



Su un ulteriore versante, e per finire, vale la pena menzionare la crescita di peso e di spessore acquisita dal microcredito, forse il filone più radicato fra le esperienze di “nuova finanza”. Dalle pionieristiche attività legate al commercio equo e solidale fino alle Mag e al fondo “Etico e sociale” delle Piagge (Firenze), si è arrivati al premio Nobel per la pace attribuito a Muhammad Yunus. Ai “giurati” del Nobel è mancato però il coraggio di andare fino in fondo e considerare il “banchiere dei poveri” per quello che è e per quello che ha rappresentato: un modo diverso di concepire il credito, quindi l’economia, quindi la società. Dovevano attribuirgli il Nobel per l’economia, ma di questi tempi – evidentemente – sarebbe stato troppo.





Il commento

L’innovazione che ci manca

di Tonino Perna*



Il movimento per un’altrafinanza sta attraversando negli ultimi anni un periodo di stagnazione , di inerzia, ed in qualche caso di declino. Non è tanto un problema quantitativo, quanto qualitativo e politico.  Le Mag (almeno alcune) si sono consolidate, ma la loro funzione, le aspettative suscitate, l’entusiasmo e l’energia iniziale sono declinate. Sono rimaste un fenomeno di nicchia. La Banca popolare Etica di Padova, che è stato il primo rilevante esperimento europeo di banca eticamente orientata, è cresciuta brillantemente sul piano quantitativo, ma la sua carica progettuale, la sua mission iniziale è stata oscurata dal peso crescente della burocrazia interna e dall’entrata nei cosiddetti “fondi etici”, in cui scompare il legame forte tra risparmiatore e utilizzatore del risparmio (la banca), che costituiva la vera novità rispetto alla storia delle banche popolari di credito.  

Si può dire, senza tema di smentita, che il movimento dell’altrafinanza è stato vittima del “ciclo vitale del prodotto” –nascita, espansione, stagnazione, declino- cui nessuno può sfuggire e che in questa fase storica mostra, purtroppo, una riduzione del range della parabola. Ma, d’altra parte, sappiamo che un nuovo ciclo vitale può sempre ripartire da una rilevante innovazione. Ed è quello che manca oggi al mondo della finanza etica e alternativa. Ed invece proprio oggi più di ieri ce n’è urgente bisogno. Come mostrano i dati della recente crisi finanziaria, che non è né congiunturale, né marginale, bensì strutturale. Come dimostra il crollo della fiducia interbancaria (non succedeva dal fatidico ’29).

È una crisi che sta facendo tremare i polsi ai boss delle banche centrali di tutto il mondo che tentano (con gigantesche iniezioni di droga-denaro) di salvare il sistema.

Un sistema che crea denaro dal denaro, profitto dal profitto, attraverso una spirale folle che sottrae alla gran parte della popolazione del mondo il controllo della ricchezza prodotta.



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