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Opinioni

Il futuro è il Mediterraneo

Già i romani lo chiamavano "il nostro mare", e oggi l’Italia è parte di una "comunità" di quasi 500 milioni di persone. Al centro c’è Lampedusa, l’isola dove accoglienza è sinonimo di salvezza, dove dare un nuovo significato alla parola "fiducia"

Tratto da Altreconomia 161 — Giugno 2014

Molti anni fa, l’avvocato Gianni Agnelli esortava a guardare al Nord Europa per cercare vie di sviluppo per il nostro Paese. Dall’altra parte delle Alpi, si diceva allora, è il futuro. Noi invece crediamo, e non da ora, che il futuro sia il Mediterraneo.

“Il nostro mare” lo chiamavano gli antichi romani. Il “mar Bianco di Mezzo” gli arabi (così lo chiamano ancora in Turchia). Oggi è una comunità di quasi 500 milioni di persone (il 7% della popolazione mondiale). Una comunità cui si deve il 10% del prodotto interno lordo mondiale.
L’Italia è al centro di questa comunità. I dati ci dicono che l’interscambio commerciale tra il nostro Paese e gli Stati dell’area mediterranea è aumentato del 78% tra il 2001 e il 2013. Parliamo di un giro d’affari di quasi 60 miliardi di euro -per larga parte legato all’energia-, che ci pone al terzo posto dopo Stati Uniti e Germania. Nel 2015 i volumi aumentareanno, e saremo scavalcati anche dalla Cina. Tre quarti di questi scambi sono via mare; in quest’area transita ogni anno un quinto del traffico marittimo globale: 57 porti commerciali e 25 corridoi, i più importanti dei quali passano dalla Spagna e dalla Grecia. L’Italia movimenta nel Mediterraneo ogni anno 204 milioni di tonnellate di merci. Solo in Turchia lavorano oltre mille imprese italiane; 750 in Tunisia, 140 in Marocco.
Non solo: il Mediterraneo è la prima “azienda turistica” del mondo, e qui c’è -tra solare ed eolico- il 10% del potenziale energetico da fonte rinnovabile dell’intero Pianeta.
I numeri, certamente, non dicono tutto, o molto poco.
Non dicono delle cosiddette “primavere arabe” appassite, non raccontano dell’agonia libica, né della lotta dei cittadini greci per resistere all’austerità imposta dall’Unione europea. Non parlano della tragedia siriana dimenticata da tutti, né delle sofferenze del popolo palestinese.
Soprattutto, il Mediterraneo ha un cuore, un puntino di 20 chilometri quadrati in mezzo al mare. Un cuore che si chiama Lampedusa.
Ancora, a metà maggio, un naufragio  a Sud dell’isola ha fatto decine di morti. Sono solo gli ultimi di un conteggio disperato. Come non smette mai di documentare il sito Fortresseurope, dal 1988 sono morte lungo le frontiere dell’Europa almeno 19.720 persone, di cui 2.352 soltanto nel corso del 2011, almeno 590 nel 2012 e 801 nel 2013.

A Lampedusa la parola accoglienza è sinonimo di salvezza: per questo Lampedusa rimane un’ideale candidata al Nobel per la Pace, per questo Lampedusa è il punto ai confini del mondo da dove il papa ha cominciato il suo viaggio intorno al globo.
Lampedusa, Zuara in Libia, Ceuta e Melilla (territori spagnoli in Africa): sono questi i cuori del Mediterraneo che mettono a dura prova la capacità di  ciascuno di noi di riconoscersi in questa comunità. Eppure sono i “cuori” a partire dai quali scommettiamo sul nostro futuro.
Per capire che cosa significa la parola “futuro” -scriveva il filosofo Giorgio Agamben un paio di anni fa- “bisogna prima capire che cosa significa un’altra parola, che non siamo più abituati a usare se non nella sfera religiosa: la parola ‘fede’”. In ambito religioso -e in senso etimologico- la fede è il “credito” di cui godiamo presso la divinità, ma la nostra -scrive Agamben- “è un epoca di scarsa fede, o meglio di malafede, cioè di fede mantenuta a forza e senza convinzione. Quindi un’epoca senza futuro e senza speranze – o di futuri vuoti e di false speranze”. La trasposizione da divina a umana della fede è la fiducia. (Non a caso, l’unico ambito, l’unica religione che ruota incessantemente attorno al perno del credito è il capitalismo finanziario, che funziona giocando -tradendo- la fiducia delle persone. Lucrando sulle loro speranze).

Lampedusa è l’isola della speranza: di chi cerca una vita migliore e rivendica i suoi diritti, e di tutti noi che abbiamo un’idea di futuro che nessuna crisi -che in realtà è il modo normale in cui funziona l’economia del nostro tempo- potrà mettere in discussione. —
 

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