Esteri
Il disagio del Brasile in strada arriva da lontano
Un Paese in profonda trasformazione, che nasconde dietro i lavori per modernizzare le città in vista di Mondiali e Olimpiadi una mutazione genetica (e non egualitaria) del Partito dei lavoratori, che lo guida da tre mandati. L’intervista a Lula, che afferma "le élite non hanno mai guadagnato denaro come durante il mio governo"
Prima taciute poi minimizzate dai nostri media (“alcune decine di manifestanti a San Paolo per l’aumento del prezzo dei trasporti”, questa la prima timida presa d’atto della RAI) le manifestazioni poco a poco appaiono nella loro reale dimensione: decine di migliaia di manifestanti nelle principali città del Brasile, con motivazioni che vanno ben al di là dell’aumento del prezzo di un biglietto dell’autobus.
Sapevo -da amici frequentati nei lunghi soggiorni di lavoro a San Paolo negli anni Ottanta e Novanta- di uno scontento serpeggiante a vari livelli, ma non ero riuscito a inquadrarlo. L’immagine che ci giungeva coi media dal Brasile era quella di un Paese in irresistibile crescita, che si preparava a stupire il mondo con il Mundial del 2014 e le Olimpiadi del 2016. Francamente sono stato colto di sorpresa.
Dal 2010, dalle ultime riflessioni sul Brasile pubblicate alla fine delle due presidenze Lula, pazientemente accantonavo notizie che ritenevo significative.
L’amica Cecilia, valente economista carioca, ogni tanto mi mandava elaborati pezzi critici dove mi allertava sulla non così eccellente salute dell’economia brasiliana in prospettiva. Ma faceva parte della piccola porzione della sinistra che non si era fatta incantare dal “presidente operaio” né dalla “presidente guerrigliera”.
Le opere faraoniche da mostrare al mondo in occasione di grandi eventi inorgogliscono forse gli abitanti di un Paese, ma quando si eccede e si stravolge l’incanto di una città come Rio de Janeiro, amata dai suoi abitanti, inclusi i favelados, nascono anche dubbi e domande. E qualche atto di resistenza (vedi in occasione della distruzione del museo indigeno vicino al Maracanà) che comincia a raccogliere solidarietà.
Poi, all’inizio del 2013, la sorpresa dell’irrigidimento del Movimiento Sem Terra.
E il 18 giugno sul blog di Emir Sader, il prestigioso sociologo paulista di sinistra -che a mio modesto parere aveva ceduto un po’ troppo al fascino del senz’altro prestigioso presidente Lula- leggevo una intervista a questi fatta dallo stesso Sader e da Pablo Gentili, segretario esecutivo del CLACSO di cui oggi Sader è coeditore.
Difficile non riconoscere molti meriti a Lula, del resto ben sottolineati da lui stesso nell’intervista. Due brani però mi hanno turbato. Tutti sanno del profondo mutamento genetico subito negli anni della presidenza Lula dal suo partito, il PT, il Partido dos Trabalhadores, di cui Lula fu co-fondatore negli anni duri della dittatura militare.
Alla domanda degli intervistatori “E il PT, è cambiato?”, Lula risponde: "Uno é il PT del Congresso, dei parlamentari, il PT dei dirigenti. Altra cosa è il PT della base. Io direi che il 90% della base del PT continua a essere uguale a quello che era nel 1980 […]. È una base molto esigente, molto solidale […] Però c’è anche il PT delle elezioni. In Brasile o facciamo una riforma politica o la politica ritornerà a essere più perversa di quanto è stata in qualsiasi altro momento".
Peccato che non abbia approfondito il perché del distacco della dirigenza, piuttosto corrotta come sappiamo, dalla sua base, supposto che la base sia ancora quella degli anni ’80. Non era l’indiscusso prestigio di Lula a orientare e controllare la struttura del partito?
L’altro passaggio conturbante è questo: "[…] le élite non hanno mai guadagnato denaro come durante il mio governo. Né le emittenti televisive, che erano quasi tutte in difficoltà. Né i periodici, che pure erano quasi tutti in ginocchio quando assunsi la presidenza. Le imprese e le banche mai hanno guadagnato tanto. Ma anche i lavoratori hanno guadagnato. Il lavoratore può guadagnare solamente se la sua impresa va bene".
Ovvero: la botte piena e la moglie ubriaca. Le grandi imprese, certamente, hanno guadagnato tanto. Ma le piccole e medie, sottoposte a una concorrenza cinese spietata, non sembra altrettanto. E se non vanno bene, come dice Lula, anche i lavoratori non si trovano bene. Il discorso sarebbe da approfondire.
Ma torniamo ai disordini di questi giorni. Leggo sull’editoriale "Saturazione e progetto" del blog di Sader in data di oggi, 18 giugno: "[…] in undici capitali migliaia sono scesi nelle piazze. I 20 centavos che in origine hanno motivato la mobilitazione in San Paolo il 6 di giugno, sono divenuti irrisori di fronte all’impeto e all’intensità di ciò che vediamo 12 giorni dopo. Ciò che è in gioco è molto di più di questa bazzecola. Le strade richiedono una nuova agenda politica per il Brasile".