Esteri / Attualità
Il campo profughi di Jenin dopo i raid dell’esercito israeliano
Quello di inizio luglio è stato il più massiccio attacco nell’area dal 2002. Le operazioni militari hanno colpito i civili, lanciando anche gas lacrimogeni in un ospedale e speronando le ambulanze. I mezzi pesanti hanno devastato le strade. Per i Relatori speciali dell’Onu si è trattato di “una punizione collettiva” della comunità palestinese
“Uno dei loro cani mi è saltato addosso e sono caduto a terra, loro hanno riso di me. Ho detto che avevo 63 anni e che avevo la glicemia alta. Mi hanno fatto prendere le medicine dopo due ore”. Salam è un residente del campo profughi di Jenin, nel Nord della Cisgiordania occupata. Per sedici ore la sua abitazione è stata utilizzata come base dai soldati delle Israel defense forces (Idf) impegnati nel violento raid militare che tra il 3 e il 5 luglio di quest’anno ha causato la morte di 12 persone, oltre cento feriti e più di quattromila sfollati. L’uomo ha raccontato agli operatori di Medici senza frontiere (Msf) che intorno all’una di notte i militari hanno sfondato la porta di casa, hanno puntato le armi contro di lui e le sue tre figlie e sono rimasti lì, mangiando il loro cibo e giocando a carte.
Msf ha fornito cure mediche d’emergenza dopo il raid delle forze israeliane e svolto più sopralluoghi all’interno del campo per accertare l’entità dei danni e portare aiuto alla popolazione: “Abbiamo visto la completa distruzione di alcune case e abbiamo incontrato pazienti con malattie croniche che necessitano di farmaci -ha spiegato Jovana Arsenijevic, coordinatrice delle operazioni di Msf a Jenin-. Abbiamo dovuto muoverci a piedi perché le strade sono completamente distrutte”.
Durante l’attacco, avvenuto via terra e dal cielo, Israele ha schierato circa duemila soldati e ha fatto ricorso a bulldozer e mezzi corazzati per demolire insediamenti ed edifici. I mezzi pesanti, denuncia ancora Medici senza frontiere, hanno causato gravissimi danni anche alle strade che portano al campo di Jenin, impedendo così alle ambulanze di raggiungere i pazienti che necessitavano di cure nei momenti più drammatici. Inoltre sono state danneggiate altre infrastrutture civili, comprese le forniture d’acqua e di energia elettrica.
Le violenze non hanno risparmiato nemmeno le strutture sanitarie, tra cui l’ospedale Khalil Suleiman: “Le forze israeliane hanno lanciato più volte gas lacrimogeni all’interno della struttura, questo è inaccettabile. Il pronto soccorso non è utilizzabile in questo momento, è completamente pieno di fumo, così come il resto dell’ospedale -aveva denunciato già il 4 luglio Arsenijevic-. Le persone che hanno bisogno di cure non possono essere trattate nel pronto soccorso e siamo costretti a curare i feriti sul pavimento dell’atrio dell’ospedale”. Le testimonianze fornite dall’organizzazione smentiscono quindi le dichiarazioni dei vertici dell’Idf secondo cui durante il raid sarebbero state prese di mira solo infrastrutture militari e luoghi in cui avevano trovato rifugio terroristi.
Le incursioni nel campo di Jenin hanno iniziato a seguire quello che Arsenijevic di Msf ha definito uno “schema ricorrente”: “Le ambulanze vengono speronate dai mezzi blindati e ai pazienti e al personale sanitario viene regolarmente negato l’ingresso e l’uscita dal campo. L’intensità degli attacchi è aumentata con l’uso di elicotteri e di droni e in un’area così densamente popolata è a dir poco oltraggioso. Le strutture mediche, le ambulanze e i pazienti devono essere rispettati”.
“Sono stati gli attacchi più feroci commessi in Cisgiordania dalla distruzione del campo di Jenin nel 2002 -denunciano i Relatori speciali delle Nazioni Unite Francesca Albanese (sulla Situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati), Paula Gaviria Betancur (Diritti umani degli sfollati interni) e Reem Alsalem (Violenza contro donne e ragazze)-. È straziante vedere migliaia di rifugiati palestinesi, originariamente sfollati dal 1947-1949, costretti a lasciare il campo in preda alla paura nel cuore della notte”.
All’interno del campo profughi, sorto nel 1953 su un’area grande poco più di mezzo chilometro quadrato, vivono circa 14mila persone. Con il passare del tempo è stato progressivamente inglobato all’interno del tessuto urbano della città Jenin di cui oggi, di fatto, è un quartiere abitato dai discendenti dei palestinesi costretti a lasciare le proprie terre dopo l’istituzione dello Stato di Israele nel 1948.
Denunciando le cosiddette operazioni “antiterrorismo” delle forze israeliane, i tre Relatori speciali delle Nazioni Unite hanno sottolineato che gli attacchi non trovano alcuna giustificazione nel diritto internazionale: “Costituiscono una punizione collettiva della popolazione palestinese, che è stata etichettata come ‘minaccia alla sicurezza collettiva’ agli occhi delle autorità israeliane. I palestinesi nei Territori occupati sono persone protette dal diritto internazionale, garantite da tutti i diritti umani, compresa la presunzione di innocenza. Non possono essere trattati come una minaccia alla sicurezza collettiva dalla Potenza occupante, tanto più mentre essa porta avanti l’annessione della terra palestinese occupata e lo sfollamento e l’esproprio dei suoi residenti palestinesi”.
“L’uso di raid aerei su un campo profughi sovraffollato è al di là di qualsiasi livello accettabile di uso della forza. I cicli infiniti di violenza nei Territori palestinesi occupati sono un chiaro segno del fallimento collettivo della comunità internazionale nel sostenere la responsabilità e proteggere i palestinesi”, denuncia Caroline Ort, direttore del Norwegian refugee council per la Palestina. L’organizzazione umanitaria ha poi sottolineato come l’attacco dell’esercito israeliano si inserisca all’interno di una preoccupante escalation della violenza nei Territori occupati: tra gennaio e giugno 2023, infatti, sono stati uccisi almeno 152 civili palestinesi, superando così le 146 vittime registrate in tutto il 2022. A sua volta, quest’ultimo era il dato più elevato dal 2004, anno in cui le Nazioni Unite hanno iniziato a monitorare il fenomeno.
Il 2023 rischia di segnare un nuovo drammatico record anche per quanto riguarda le demolizioni in Cisgiordania e a Gerusalemme Est: almeno 447 strutture palestinesi (tra cui 61 finanziate con aiuti internazionali) sono state abbattute o sequestrate dalle autorità israeliane nei primi sei mesi del 2023. Lo scorso anno, nello stesso periodo di tempo, erano state 391. “Queste operazioni hanno sfollato 685 palestinesi nel 2023. Anche tre comunità sono state trasferite con la forza”, ha aggiunto Ort.
Quello che è successo in questi giorni a Jenin si inserisce all’interno di “una sequela di vendette e di lutti che da decenni colpisce entrambe le popolazioni, anche se con proporzioni diverse”, ricorda la Coalizione AssisiPaceGiusta, rete di organizzazioni pacifiste italiane. “Condannare la violenza non è più sufficiente. Occorre esigere il riconoscimento dello Stato di Palestina al fianco dello Stato d’Israele, per porre fine a una guerra mai terminata e a un’annessione di territorio per le vie di fatto, illegale e foriera di questa spirale di odio, violenza e vendette funzionali solamente a chi continua a vedere la regione del Medio Oriente come un terreno di scontro e di guerre per propri calcoli ed interessi strategici e non come una regione di convivenza e di integrazione tra culture e religioni diverse”.
© riproduzione riservata