Esteri / Attualità
Giornata mondiale dell’acqua: un webdoc racconta l’Iraq senza fiumi
Il web-documentario “Iraq without water”, a cura delle giornaliste Sara Manisera e Arianna Pagani insieme alla Ong italiana Un Ponte Per, narra la crisi idrica irachena e la lotta di alcuni giovani attivisti per salvare il fiume Tigri, le antiche Paludi Mesopotamiche e il patrimonio ambientale del Paese
Esra Falah Hasan è un’attivista per l’acqua in Iraq. È un’avvocata e una volontaria dell’associazione “Humat Djilah”. Ne è entrata a fare parte nel 2017, anno in cui ha visitato le Paludi Mesopotamiche, Patrimonio dell’Umanità, un importante centro di biodiversità e una delle più grandi zone umide al mondo. “Quello che abbiamo visto è stato una catastrofe. Il sostentamento della gente che vive lì dipende principalmente dalle Paludi, che ora rischiano di sparire”, spiega. L’area è abitata dagli Ma’dan, che vivono di allevamento e pesca. Il luogo rischia di essere prosciugato dalla costruzione di dighe a monte in Turchia, Siria e Iran che potrebbero ridurre la quantità di acqua per i fiumi Tigri ed Eufrate. “La questione -spiega- non è solo riconoscere all’Iraq il suo diritto all’acqua e opporci alle dighe. È più grande: è legata al cambiamento della biodiversità in tutta la regione e a quale sarà l’impatto ambientale causato dal blocco”.
Quella di Esra è una delle storie raccontate nel web-documentario “Iraq without water”, firmato dalla giornalista Sara Manisera e dalla fotografa Arianna Pagani e portato avanti in collaborazione con l’organizzazione non governativa “Un ponte per”, attiva da trent’anni in Iraq. Realizzato con il contributo finanziario dell’Unione europea e della Regione Piemonte attraverso il Consorzio delle Ong Piemontesi nell’ambito di “Frame, Voice, Report!”, il progetto racconta la crisi che investe le risorse idriche del Paese e la generazione di giovani attivisti che lottano per contrastarla, tutelare il diritto all’acqua per tutta la popolazione e difendere il patrimonio ambientale. Il viaggio -oggi, Giornata Mondiale dell’Acqua, pubblicato online- segue il percorso del Tigri, che diventa sempre più inquinato mentre si scende verso Sud: si parte da Mosul, si arriva a Sulaymaniayah e nella capitale Baghdad, per finire nelle antiche Paludi Mesopotamiche e nella città di Basra, situata sullo Shatt Al-’Arab, il corso d’acqua formato dall’unione dei due fiumi.
“Abbiamo deciso di raccontare la crisi idrica irachena attraverso le lotte di una nuova generazione di attivisti. Crediamo sia necessario mostrare la mobilitazione della società civile che si organizza per fare sì che l’acqua sia un diritto garantito per tutti”, spiega Manisera. “Le storie di resistenza dal basso raccontano un Paese che non si identifica con l’immaginario di vittima, quello che spesso finisce per prevalere. Un cambio di narrazione che è anche un responsabilità giornalistica”, commenta.
In Iraq la crisi delle risorse idriche è determinata da un insieme di fattori diversi. “Sono determinanti le dighe turche e iraniane. Uno strumento egemonico che potrebbe essere motivo di ulteriori conflitti e tensioni”, spiega Manisera. In Iraq, infatti, il 91% dell’approvvigionamento idrico non è interno ma passa attraverso la Turchia, la Siria e l’Iran. Ankara, in particolare, sta realizzando il progetto dell’Anatolia sudorientale (GAP-Southeastern Anatolia Project) che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 impianti idroelettrici insieme a sistemi di irrigazione estensiva che stanno riducendo la quantità di acqua ricevuta dal Paese. Oltre ai fattori climatici -il 2018 è stato segnato da una siccità tale che ha spinto il governo a vietare le piantagioni di colture estensive- alla situazione attuale hanno contribuito “la cattiva gestione dei rifiuti: gli scarichi industriali sono sversati direttamente nel Tigri con conseguenze sulla salute degli abitanti. Non sono state prese misure per limitare l’inquinamento delle falde e le strutture sono obsolete e distrutte da trent’anni di conflitto”. Come il caso di Mosul dove, a tre anni dalla vittoria contro lo Stato Islamico, gli impianti idrici distrutti nella parte settentrionale della città non sono ancora stati ricostruiti. “Quando manca l’acqua potabile, sono le fasce più deboli della popolazione a risentirne perché non sempre possono permettersi di acquistarla in bottiglia”, spiega. A Basra, centro dell’industria petrolifera del Paese, la mancanza di impianti di trattamento dei rifiuti industriali e l’aumento di sostanze inquinanti nello Shatt Al-’Arab ha portato a una crisi sanitaria e ambientale senza precedenti. “È una delle zone più colpite dal cancro”, spiega Manisera, in particolare nelle zone vicine agli impianti di petrolio e gas.
Per garantire il diritto di tutti all’acqua pulita, nel Paese sono nati gruppi come “Waterkeepers Iraq” e “Nature Iraq” che chiedono al governo di rispettare i requisiti minimi di protezione ambientale. Nel 2012 è stata lanciata la campagna “Save the Tigris”, sostenuta anche dalla Ong “Un Ponte Per”, che riunisce numerose organizzazioni irachene con l’obiettivo di portare a livello internazionale la discussione sul patrimonio idrico del Paese. Nel 2018 ha pubblicato un rapporto in cui denunciava che 1.200.000 metri cubi di sostanze inquinanti si trovavano nel fiume Tigri a Baghdad, che attraversa la città per 70 chilometri, sversati da discariche illegali, raffinerie e anche strutture governative. Il coordinatore della campagna di advocay è l’ambientalista e difensore dei diritti umani Salman Khairallah, che lo scorso dicembre era stato arrestato, e poi liberato, dalla polizia il suo sostegno ai manifestanti di piazza Tharir. Quella per il diritto all’acqua è una mobilitazione collettiva che, nel suo essere comunitaria, riflette il significato storico del fiume che si difende. Come afferma Bassam Abdul Kareem, un abitante di Mosul intervistato dalla due giornaliste: “Il fiume Tigri appartiene a tutti gli iracheni, non solo a certi gruppi come sunniti, sciiti, curdi o cristiani. No. Tutto il popolo, tutti gli iracheni e le irachene appartengono a questo fiume”.
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