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Ambiente

Gasdotti a perdere

Un tubo di quasi 700 chilometri sta per attraversare l’Italia. Porterà metano in tutta Europa e grandi profitti ai privati. I costi invece li sosterranno i cittadini La nuova autostrada del gas taglierà in due l’Appennino centrale. È un “tubone”…

Tratto da Altreconomia 114 — Marzo 2010

Un tubo di quasi 700 chilometri sta per attraversare l’Italia. Porterà metano in tutta Europa e grandi profitti ai privati. I costi invece li sosterranno i cittadini

La nuova autostrada del gas taglierà in due l’Appennino centrale. È un “tubone” lungo 687 chilometri, e unirà Massafra, in provincia di Taranto, a Minerbio, nella Pianura Padana, aprendosi un varco tra i boschi, attraversando fiumi e il greto di torrenti di montagna.
Nei documenti di Snam Rete Gas, il maggior operatore della nostra rete di trasporto, stoccaggio e distribuzione del gas, un’impresa quotata in Borsa ma controllata dal ministero dell’Economia attraverso Eni (vedi box), il progetto prendo il nome di “Ulteriore potenziamento importazione dal Sud”. Il metanodotto va costruito anche se all’Italia non serve, anche se nel 2009 l’offerta di gas è stata superiore alla domanda: basta cambiare prospettiva. Minerbio, 7.500 abitanti a una ventina di chilometri da Bologna, è uno dei più importanti nodi di smistamento della rete nazionale di trasporto gas. Oggi ci arriva il metano importato dall’Algeria e dalla Russia; un domani, se davvero verranno costruiti 9 nuovi impianti di rigassificazione del gas naturale liquido previsti nel nostro Paese (due sono già attivi), farà del nostro Paese l’hub del metano, il baricentro europeo, come non perde l’occasione di ripetere il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola. Anche se non produciamo direttamente gas naturale, controlleremo tutte le reti di trasporto. Per farlo, vale la pena “sconvolgere” il paesaggio di mezza Italia: Puglia, Basilicata, Molise, Campania, Abruzzo, Umbria, Lazio, Toscana, Marche ed Emilia Romagna.
A ottanta chilometri da Massafra, punto di partenza del tubone, c’è Brindisi, dove dovrebbe esser costruito uno dei rigassificatori. Nel 2005, Snam lo mette nero su bianco: “La finalità complessiva [del nuovo metanodotto Brindisi-Minerbio, ndr] è di realizzare le capacità di trasporto richieste dal previsto terminale di gas naturale liquefatto (Gnl) di Brindisi”. Oggi l’azienda nega, anche perché il progetto del rigassificatore è fermo: “I nostri investimenti non contemplano allacciamento ai rigassificatori”. Intanto, a gennaio sono stati aperti i primi cantieri. I soldi arrivano, in parte, da Bruxelles: sotto l’albero di Natale, Snam ha trovato un pacchetto regalo confezionato dalla Banca europea degli investimenti, che il 22 dicembre 2009 ha stanziato un finanziamento di trecento milioni di euro a favore dell’impresa italiana. Copriranno quasi il 50% del costo di realizzazione del metanodotto tra Massafra e Biccari (Fg), il primo tratto di quello che raggiungerà Minerbio, e un altro tra Cremona e Sergnano (Cr), 50 chilometri tutti in Lombardia. La Bei crede nell’obiettivo di “garantire una maggiore sicurezza di approvvigionamenti e un incremento della capacità della rete italiana dei gasdotti”. Vale la pena sottolinearlo: quelli in arrivo dalla Banca europea sono fondi pubblici, gli azionisti della Bei sono i Paesi dell’Unione. Dei due interventi, quello più controverso è senz’altro quello a Sud. Non tanto per i 194,7 chilometri attraverso Puglia e Basilicata, quanto per i 113,8 della tratta Foligno-Sestino, tra Umbria e Marche. Il “tubone” sarà collocato a 5 metri di profondità, lungo un percorso che divide in due l’Appennino. In mezzo, una striscia di terra di 4 metri, 20 per lato, “servitù di pertinenza” dell’opera, che è stata dichiarata di pubblica utilità, con decreto ministeriale, il 21 aprile 2005.
Eppure, il metanodotto potrebbe restare troncato in due: “Per il tratto Foligno-Sestino, Regione Marche e Regione Umbria hanno concesso l’autorizzazione, dopo una valutazione d’impatto ambientale positiva -spiega Aldo Cucchiarini, del Comitato “No tubo”-: sul parere delle Marche pende però un ricorso al Tar di Ancona presentato dal comitato, dalle associazione ambientaliste Federnatura e La Lupus in Fabula, e un ricorso straordinario al Capo dello Stato, unificato al ricorso al Tar su richiesta della Snam”. Nel ricorso al Tar, un elenco dettagliato spiega i “limiti” del progetto: “Il tracciato attraversa 35 corsi d’acqua, e ha interferenze per 87,65 chilometri con aree vincolate dal Vincolo idrogeologico e con 30 di aree boscate, e attraversa tre Siti d’importanza comunitaria”, quelli del fiume Topino, dei boschi del bacino di Gubbio e dei boschi di Pietralunga, individuati in base alla direttiva comunitaria 92/43 sulla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche.
Lungo è anche l’elenco degli enti locali che hanno espresso un parere contrario al progetto. Tra i più agguerriti c’è il Comune di Gubbio, il cui sindaco ha recentemente invitato i cittadini a non firmare nessun documento sul gasdotto, perché emissari di Snam starebbero visitando le famiglie le cui proprietà verrebbero attraversate dal progetto. Il Comune ha chiesto a Snam di valutare un tracciato alternativo, ad esempio lungo l’autostrada A14 Adriatica. L’azienda però non si scompone e va avanti per la sua strada. Iniziando da Massafra. Già in fase progettuale aveva scelto di dividere il metanodotto in cinque tratte perché ciò consente di ridurre “il livello di criticità complessiva insito in ogni nuova infrastruttura”. Oggi Snam conferma: “Stiamo investendo circa 1 miliardo di euro all’anno per aumentare la capacità di trasporto. L’Italia, grazie alla rete Snam è il Paese che unisce i giacimenti del Nord Africa, in Libia, Algeria, con il Nord Europa. Attraverso la nostra rete, c’è connessione con Francia, Germania, Regno Unito e con i giacimenti del mare del Nord”. C’è qualcosa che non quadra: nei documenti a corredo del progetto Massafra-Minerbio, Snam scrive che “le previsioni dei fabbisogni di gas sono concordi nel prefigurare sostanziali aumenti dei consumi nei prossimi anni, sostenuti soprattutto dalle richieste di produzione di energia elettrica attraverso nuove centrali termoelettriche a metano, caratterizzate da alti rendimenti e ridotto impatto ambientale”. Ma nel 2009 la domanda è crollata, e l’azienda stessa prevede che ci vogliano due o tre anni prima che possa tornare ai livelli del 2007. Intanto, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas, ha chiesto ad Eni di vendere Snam. L’Ue, invece, ha imposto ad Eni di cedere il controllo di tre gasdotti -Transigas, Tenp e Tag- che portano il metano nel nostro Paese. La compagnia guidata da Scaroni incasserà 1,5 miliardi di euro, ma svanisce il sogno dell’hub; di un monopolio ancora da costruire, a scapito delle nostre montagne, sul gas in viaggio dal Sud Italia verso il Nord Europa.

La ragnatela dei ricavi
I metanodotti Snam sono come capillari lunghi 31mila chilometri che attraversano tutto il Paese. Nel 2009, l’azienda ha immessi nella rete di trasporto ben 76,90 miliardi di metri cubi di gas naturale.
Snam Rete Gas, il cui azionista di riferimento è il ministero dell’Economia, che attraverso Eni ne controlla il 50,031%, ha chiuso il 2009 con numeri da primato.
I ricavi hanno toccato quota 2,43 miliardi di euro, con un +28,2%; gli utili, a 732 milioni di euro, segnando un +38,2%. Soprattutto, gli utili sono pari al 30% del fatturato: un’immensità.
Il 27 maggio 2010, dopo l’assemblea degli azionisti (convocata per fine aprile), lo Stato incasserà quasi 360 milioni di euro in dividendi (il consiglio d’amministrazione ha proposto un dividendo di 0,20 euro per azione). La società, “soggetta all’attività di direzione e coordinamento di Eni spa”, controlla anche Italgas spa (100%), Napoletana Gas spa (99,69%), Stogit spa (100%) e Gnl Italia spa (100%), la società che gestisce il rigassificatore di Panigaglia (La Spezia).

Chi paga il conto
Erasmo Venosi, vice presidente della Commisione Integrated Pollution Prevention and Control dal 2006 al 2008, è stato responsabile per il settore energia nella segreteria tecnica del ministero dell’Ambiente tra il 2006 e il 2008. Dal 2008 all’ottobre 2009 è stao nella segreteria tecnica per la difesa del suolo al ministero dell’Ambiente).
“In Italia -spiega- attualmente vi sono due rigassificatori, al largo di La Spezia e di Rovigo. Il governo ne ha previsti altri 9, dei quali 5 hanno ricevuto un parere favorevole a livello di impatto ambientale”.
Perché 5 impianti sono troppi?

“Al momento il consumo annuo è pari a 83 miliardi  di metri cubi di gas metano; secondo le cifre dell’ Eni, al 2020 diverranno 100 miliardi di metri cubi. Quindi sommando la  capacità dei metanodotti più i rigassificatori autorizzati arriviamo ad una capacita installata a 230 miliardi di metri cubi, ben superiore alla domanda”. Perché questo accade?
“Nel 2005, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha emanato una delibera, la 178, dove, per promuovere gli impianti di rigassificazione, viene garantito  all’investitore l’80% dei ricavi previsti. Quindi, se un rigassificatore ha una capacità di 9 miliardi di metri cubi, anche se l’investitore non ne vende uno,  si vede garantito un introito per 8,1 miliardi di metri cubi. Lo storno dei costi di questi impianti avviene nelle bollette del gas di tutti noi. Non solo: in Europa la capacità di rigassificazione inutilizzata è pari 55 miliardi di metri cubi. Sommando rigassificatori programmati e potenziamento e costruzioni di nuovi gasdotti in Europa si arriva ad una capacità addizionale di 170 miliardi di metri cubi. Se a questo aggiungiamo anche la nuova capacità da metanodotti, arriviamo a 350 miliardi di metricubi di surplus ovvero il doppio del fabbisogno incrementale prima della crisi. Non si spiega quindi perché in Italia si debbano creare ulteriori oneri per il consumatore costruendo nuovi impianti”.
A chi dobbiamo questa situazione?
“Chi ha programmato gli investimenti sugli impianti sono le grandi  società, quindi Eni, Edison, E.on, che si muovono facendo forte pressione sui governi. Per quanto riguarda la politica, invece, la responsabilità è del ministero dello Sviluppo economico”. L’intervista integrale su www.youtube.com/altreconomia (gg)

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