Ambiente
Gas, avamposto in Salento
Il Trans Adriatic Pipeline porterà il combustibile dal Turkmenistan all’Europa: la costa pugliese è sacrificata sull’altare della sicurezza energetica. Elena Gerebizza di Re:Common, che firma quest’articolo uscito su "Altreconomia" di novembre 2013, è stata da poco audita sul progetto in commissione Esteri alla Camera (qui puoi leggere il resoconto e guardare il video della sua presentazione) —
Roma è lontana da Melendugno, e molti dei senatori che a metà ottobre hanno votato la ratifica del trattato per realizzare la Trans Adriatic Pipeline (Tap) conosceranno il Salento solo per esserci stati in vacanza. È certo, però, che nell’estate del 2013 hanno “disertato” la spiaggia di San Foca, una delle più belle della provincia di Lecce, individuato come punto d’arrivo del gasdotto che dovrebbe attraversare per 870 chilometri il Nord della Grecia e l’Adriatico (scendendo fino a 800 metri sotto il livello del mare) tra Fier in Albania e la costa di Melendugno (Le): si sarebbero accorti, infatti, delle proteste organizzate dal Comitato No Tap (www.facebook.com/comitato.notap, @no_tap) -come la manifestazione dell’11 agosto-, contrario ad un progetto che potrebbe danneggiare turismo, agricoltura e pesca, settori portanti dell’economia pugliese.
E forse il presidente del Senato, Pietro Grasso, non ha inoltrato la lettera ricevuta a fine agosto dal sindaco di Melendugno, Marco Potì, che chiedeva -per lo meno- di posticipare la ratifica dell’accordo tra i tre Paesi “ad una fase successiva all’ottenimento della valutazione d’impatto ambientale (Via) ma soprattutto alla piena adesione del territorio e della popolazione interessata”. Lo Studio d’impatto sociale ed ambientale che permette di proseguire la procedura di Via è stata presentata il 10 settembre scorso al ministero dell’Ambiente, e l’iter è in corso (e fino al 10 novembre c’è tempo per presentare osservazioni).
Le parole di Potì però hanno un peso relativo di fronte a un gasdotto che dovrebbe trasportare in Europa almeno 10 miliardi di metri cubi di gas dal giacimento di gas di Shah Deniz, in Azerbaijan. Del resto, un Comitato o un ente locale del Salento non possono fermare lo sviluppo di un progetto che coinvolge due diversi consorzi internazionali di imprese -BP, Socar e Total sono socie di Shah Deniz Consortium, che il 28 giugno 2013 “ha selezionato Tap come percorso di trasporto preferito per il gas del Mar Caspio verso l’Europa”, mentre BP (20%), SOCAR (20%), Statoil (20%), Fluxys (16%), Total (10%), E.ON (9%) ed Axpo (5%) sono socie di Trans Adriatic Pipeline AG, società con sede a Baar, nel cantone svizzero di Zugo-, ed è stato considerato strategico da parte della Commissione europea, che ha inserito il Tap nella lista dei 248 Projects of Common Interest definita il 14 ottobre scorso (ec.europa.eu/energy/infrastructure/pci/pci_en.htm).
Lo stesso giorno, il 14 ottobre, il Comune di Melendugno ha votato all’unanimità un atto in cui chiede alla Regione Puglia di rigettare il progetto in toto: nemmeno le promesse compensazioni da parte della Tap sono riuscite a fare breccia.
Non avranno ricevuto, in municipio, la cartolina inviata da Baku, la capitale dell’ Azerbaijan, dal premier Enrico Letta, che ad agosto è andato ad incontrare il presidente azero Ilham Aliyev e in poche righe prova a spiegare che il Tap va collocato nel quadro più ampio della strategia energetica europea, e che infrastrutture legate alla costruzione del mercato europeo del gas svolgono un ruolo chiave.
Che figura ci farebbe l’Italia se si tirasse indietro, dato che il Tap è solo una parte di un gasdotto molto più lungo, che nella visione della Commissione europea dovrebbe partire dal Turkmenistan, attraversare il Mar Caspio e raggiungere la costa azera con il nome di Trans Caspian Pipeline (bypassando la regolamentazione del suo passaggio in un mare o lago senza status giuridico, il Caspio appunto, su cui Iran, Russia, Turkmenistan, Kazakistan e Azerbaijan sono lontani dal trovare un accordo) per poi proseguire attraverso la Georgia e la Turchia fino al confine greco con il nome di Trans Anatolian pipeline e qui -finalmente- congiungersi con il Tap. Un’opera lunga oltre mille chilometri su terra e due passaggi su mare, il cui costo complessivo non è nemmeno stimato. Tutta da costruire, e con enormi interessi in gioco.
Quella del gas è una materia politica, in cui per anni la Commissione è rimasta stretta tra visioni diverse di “come” costruire il mercato, ovvero in funzione di quali interessi, nonché dai vincoli finanziari collegati ai costi enormi del mega piano di infrastrutture che la Commissione ha definito nel 2011 con la Connecting Europe Facility, secondo cui serviranno fino a 2mila miliardi di euro per costruire le infrastrutture di priorità comunitaria nel settore energetico, dei trasporti e per la trasmissione di dati in banda larga entro il 2050. Assieme alla Banca europea degli investimenti, la Commissione è pronta a mettere sul tavolo 5,1 miliardi di euro per le infrastrutture necessarie a garantire la fornitura di energia per il mercato europeo, ma anche a costruire quelle grandi opere necessarie a completarlo. Per Bruxelles, “costruire il mercato” è una priorità a sé, funzionale a interessi del mondo finanziario che vanno al di là della narrativa sulla sicurezza energetica. In altre parole, un gasdotto o una linea di trasmissione non servono solo a “trasportare” combustibili fossili o energia elettrica, ma se i mercati di capitali partecipano alla loro costruzione diventano essi stessi un “asset” funzionale all’espansione dei mercati finanziari. Poco importa -quindi- se il gasdotto si trovi o meno in Russia, se passi dalla Turchia o dalla Bulgaria: per i mercati basta che venga costruito, e che il debito collegato sia “liquido”, ovvero trasferibile, e garantito, per evitare brutti risvegli nel caso si manifestino dei problemi nel corso dei decenni (perché i tempi sono questi) necessari alla sua costruzione.
Guardandola in quest’ottica, anche la lista dei progetti approvata dalla Commissione lo scorso 14 ottobre, quella dei Projects of Common Interest, risulta più comprensibile: una “lista della spesa” di ben 248 progetti, senza alcuna priorità, 110 dei quali nel settore del gas: depositi per lo stoccaggio, rigassificatori (come quello dell’Alto Adriatico, forse a Trieste o in Slovenia) e gasdotti da centinaia di chilometri, molti dei quali all’interno dei Paesi membri. Progetti in molti casi concorrenti gli uni con gli altri, a dimostrazione di come la Commissione si appresti a mettere in pericolo le limitate risorse pubbliche per costruire grandi opere non solo dannose, ma potenzialmente inutili. Opere tese a garantire -prima di ogni altra cosa- alti ritorni a fondi di investimento, fondi pensione e assicurazioni, pronte a investire nella costruzione delle opere ma solo a fronte di una copertura pubblica che lo permetta.
Come il “Gasdotto Adriatico” di Snam, contrastato da anni dal “Comitato NO Tubo” (notubo.blogspot.it, ne parlammo su Ae 114 nel marzo 2010) per i suoi impatti sulle montagne dell’Appennino e sui diversi parchi naturali che dovrebbe attraversare: dal Parco del Gran Sasso in Abruzzo ai Sibillini tra Marche e Umbria. Un “tubone” funzionale solo a trasportare verso Vienna il gas che arriverebbe in Italia con il Tap, per farlo poi scorrere nel “mercato europeo” senza lasciarne nemmeno un metro cubo in Italia.
Creare un “mercato interno” significa anche questo: assicurarsi la fornitura di un combustibile fossile, il gas appunto, da Paesi che stanno fuori dai confini europei. Un affare da centinaia di miliardi di euro, in cui la Commissione europea finge di non sapere che le recenti elezioni in Azerbaijan sono state ampiamente manipolate dal presidente-dittatore uscente, Ilham Aliyev, o che in Turkmenistan non esistono le libertà civili e i proventi dell’export di gas alimenta il potere delle élite al potere a discapito della popolazione. E sono solo due dei Paesi con cui la Commissione sta cercando di “legarsi” in nome del gas.
Un gioco ad alto rischio, in quanto la storia insegna che le grandi opere spesso rimangono a metà. E che costruire un gasdotto se poi il gas da trasportare non c’è (perché è stato venduto ad altri, o perché è semplicemente finito) potrebbe diventare un boomerang per la collettività, costretta da accordi finanziari a ripagare gli investitori di un progetto fallimentare.
Purtroppo l’iniziativa Europe 2020 project bond e gli accordi per la costruzione di queste grandi opere sono disegnati a favore degli investitori, e non dei governi, come ha già capito la Spagna, i cui legali stanno cercando di districarsi dal potenziale debito di centinaia di milioni che potrebbe trovarsi a pagare “a causa” del primo progetto finanziato tramite i project bond, il Castor. I titoli di debito (bond) per 1,4 miliardi di euro, con garanzia della Banca europea degli investimenti (che ci ha messo 300 milioni di euro, più 200 milioni di linea di credito aperta) e che dovevano servire a rifinanziare la costruzione di un deposito di gas al largo della costa di Valencia, che sono stati emessi a luglio 2013 ad ottobre stavano già perdendo valore. Ciò accade perché le operazioni di iniezione del gas hanno causato diversi terremoti di intensità superiore a 3,5 punti della scala Richter, tanto da costringere a fine settembre Madrid a bloccare i lavori. Mettendo così a rischio la redditività del progetto, e lasciando sull’esecutivo una “bella” spada di Damocle: in quanto azionista, potrebbe dover ripagare gli investitori. Mentre la Bei potrebbe perdere 300 o più milioni di euro, avendo rinunciato a essere ripagata prima degli altri creditori, per dare ulteriore fiducia nel progetto ai mercati. È una lezione: con i mercati finanziari non si scherza, e chi garantisce con risorse pubbliche la finanziarizzazione delle infrastrutture rischia di pagarne le conseguenze nei decenni a venire. —