Opinioni
Expo, un parco divertimenti del cibo senza contenuti
All’Esposizione universale il tema della biodiversità è (letteralmente) relegato in fondo, quando dovrebbe essere al centro, all’incrocio tra decumano e cardo. Dove non c’è niente: l’agricoltura odierna è piena di contraddizioni e questioni aperte -dalla dipendenza dal petrolio al flagello dei cambiamenti climatici, dall’uso degli oli idrogenati al land grabbing– che però non hanno spazio nei 100 ettari di padiglioni
Fedeli al principio che per parlare seriamente delle cose bisogna vederle da vicino, una domenica di maggio siamo stati a Expo 2015. Qualche ora non basta per predire come andranno sei mesi di manifestazione, ma alcune idee ce le siamo fatte.
Tralasciamo tutto quello che sappiamo del prima (corruzione, appalti, consumo di suolo, precarietà), dandolo per assodato (e su queste pagine ne abbiamo scritto abbondantemente). Tralasciamo anche i ritardi e tutte le altre difficoltà “logistiche” -come l’assenza di un parcheggio per le bici- di cui si trova ampia letteratura sui media.
Concentriamoci piuttosto sull’Esposizione, ovvero quel milione di metri quadri su cui sorgono i vari padiglioni. Come si vive uno spazio del genere?
La visita a Expo è una lunga camminata -e faticosa: bisogna essere allenati- da un punto all’altro del sito: dopo aver speso 39 euro (senza contare il trasporto) e avendo a disposizione una giornata per coprire i 100 ettari (senza panchine) in fretta prevale l’approccio che ricorda quello che si ha nei parchi divertimento. C’è la fila, la giornata non è poi così lunga, ci sono tante cose. Il visitatore si aggira, un po’ bulimico, alla ricerca dei padiglioni più attraenti. Ecco perché ad esempio ha tanto successo il padiglione brasiliano, quello con la rete su cui saltare. Oppure attrae tanto la fontana di fronte alla struttura statunitense (e pensare che alla fine le famose vie d’acqua, con tutta la loro vicenda, servivano per giochi come questo…).
Le multinazionali -da McDonald’s a Ferrero– sono onnipresenti.
Il visitatore si aggira alla ricerca, sostanzialmente, di cibo e attrazioni curiose. Non ha molte alternative, non ci si può fermare. In questa specie di spazio (per parafrasare Georges Perec) che è l’Expo di Milano, così vasto e frenetico, non c’è spazio per i contenuti.
L’agricoltura odierna è piena di contraddizioni e questioni aperte, come la dipendenza dal petrolio, la rivoluzione degli oli idrogenati, il flagello dei cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, il land grabbing.
Al mondo ci sono un miliardo di ettari di terreni fertili, coltivati da un miliardo di persone che sfamano gli oltre 7 che abitano il pianeta. Quei contadini, per la maggior parte, sono malnutriti. Poi ci sono un miliardo di obesi, un miliardo di tonnellate di cereali prodotti per l’alimentazione umana e altrettante per quella animale e per le agroenergie. Il mondo affronta la sfida della “capacità portante” e della resilienza in un pianeta fatto di città. La tecnologia -a partire dagli ogm- è un mito, così come è un mito il “modello” italiano: il nostro Paese in realtà importa il 65% del grano tenero e il 30% del grano duro, il 20% del mais, il 24% della carne e il 60% del pesce.
Per tutto questo, nel parco divertimenti del cibo, non c’è spazio. Fisicamente, nel senso stretto del termine. Fanno eccezione Cascina Triulza, dove sta la società civile, e il padiglione di Slow Food, dedicato interamente alla biodiversità, che purtroppo è relegato in fondo, quando dovrebbe essere al centro, all’incrocio tra decumano e cardo. Dove invece non c’è niente, letteralmente.
Il contesto determina la nostra capacità di veicolare contenuti. Se si decide di occuparsi dell’importante tema della nutrizione -cosa di per sé condivisibile- ma lo si fa all’interno di un parco divertimenti, ne consegue l’impossibilità concreta di veicolare certi contenuti. Posso organizzare un evento sportivo e auspicare che non volino pugni. Ma un conto è un torneo di scacchi, o una partita a pallone, un conto è un incontro di pugilato. I pugni sono insiti nell’evento.
Più in generale, dovremmmo sempre stare attenti agli spazi che utilizziamo per narrare la sostenibilità e la giustizia.
Se scegliamo un certo contesto, scegliamo anche se e come veicolare contenuti. Se uso Twitter o Facebook, è inevitabile parlare per slogan da pochi caratteri. E certamente le scelte pregiudiziali e preconcette strappano applausi, voti, likes.
Ma la libertà appartiene a chi ha il coraggio di scegliere di volta in volta quel che ritiene più giusto, argomentando nei tempi e nei modi più coerenti, date le circostanze. Anche se non va più di moda.
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