Effetto placebo per la crisi
Sussidi alle imprese e investimenti in infrastrutture rilanciano l’economia ma sono palliativi per un sistema malato. misure che fanno schizzare deficit e debito pubblico, rimandando al futuro il dibattito sull’insostenibilità di un modello fondato sulla crescita Da più di un…
Sussidi alle imprese e investimenti in infrastrutture rilanciano l’economia ma sono palliativi per un sistema malato. misure che fanno schizzare deficit e debito pubblico, rimandando al futuro il dibattito sull’insostenibilità di un modello fondato sulla crescita
Da più di un anno l’economia mondiale si sta avvitando su se stessa. Le previsioni di chi riteneva che la crisi dei mutui subprime scoppiata nell’agosto 2007 sarebbe stata circoscritta e passeggera appaiono oggi il frutto di un’illusoria fiducia negli automatismi del mercato.
Mentre continua il conto dei danni, si rompono molti tabù e si rispolverano le antiche ricette keynesiane: per sostenere il reddito delle famiglie e compensare il calo dei consumi e degli investimenti privati i governi devono mettere da parte le regole della sana finanza, tagliare le tasse e spendere in deficit. Enormi risorse pubbliche sono messe in campo per sostenere il sistema finanziario, con l’obiettivo di puntellarlo da ulteriori crolli e indurlo a sbloccare il flusso di credito a famiglie e imprese; i governi mirano anche ad aumentare direttamente la domanda globale di beni e servizi, con investimenti pubblici e trasferimenti di reddito.
Nel complesso i pacchetti di stimolo fiscale attuati dai maggiori Paesi superano i 2mila miliardi di dollari, circa il 3,5% del Pil mondiale. Quelli più ingenti, in termini assoluti, sono stati messi in atto da Cina e Usa, seguiti a distanza da Germania e Giappone.
In coda l’Italia, con uno stimolo pari allo 0,4% del Pil.
Il pacchetto Usa prevede 787 miliardi di dollari nel triennio 2009-2011, circa il 5,5% del Pil. Un altro 3,5% del Pil è destinato a ulteriori interventi di sostegno al sistema finanziario effettuati dal Tesoro Usa, che in tutto ammontano a quasi il 10% (senza contare gli interventi della Federal Reserve e altre agenzie che portano l’impegno a circa i 3/4 del Pil). Intanto il deficit del governo federale balzerà al 13% e l’indebitamento passerà dal 65% a quasi il 100% del Pil.
Ma le finanze pubbliche si appesantiscono in tutti i Paesi, e la domanda cruciale diventa come saranno impiegati tutti questi soldi? Quale sarà l’impatto economico, sociale e ambientale di queste spese?
L’analisi dei provvedimenti consegna un quadro variegato. In Italia il governo affronta la crisi con ammortizzatori sociali, social card e bonus famiglia (vedi Ae 103) per un totale di circa 9 miliardi di euro. Altri nove sono destinati alle piccole e medie imprese e 18 alle grandi opere. 12 miliardi di euro servono a finanziare i cosiddetti “Tremonti bonds” per ricapitalizzare le banche. La quasi totalità di questi soldi provengono da precedenti stanziamenti e non comportano nuova spesa. Mentre l’impulso delle grandi opere all’occupazione e alla crescita giungerà a partire dal 2011, assai incerto è quello di un “piano casa” fai-da-te dagli effetti urbanistici e ambientali devastanti. In linea generale la risposta del Governo Italiano, stretta nei limiti di un debito pubblico che mette il Paese a rischio fallimento, affida alla domanda estera (alle spese altrui) la ripresa economica e la riduzione della disoccupazione ormai ben sopra le due cifre. Ipotesi di tassazione (anche una tantum) dei redditi più alti vengono rigettate come rigurgiti di comunismo statalista.
Il piano approvato negli Usa, invece, destina 189 miliardi di dollari alla spesa sociale: sussidi di disoccupazione, investimenti nella scuola e nel programma sanitario Medicaid, trasferimenti a sostegno dei governi statali; 126 miliardi saranno spesi in infrastrutture; 91 miliardi finanzieranno la green economy; un terzo del pacchetto (252 miliardi) è destinato a tagli fiscali, di cui 87 alle imprese. Il piano cinese prevede massici investimenti in infrastrutture, accompagnati da trasferimenti ai servizi di protezione sociale e ai fondi sanitari. Più contenuti i piani europei: i 27 Paesi Ue nel loro complesso hanno dedicato 400 miliardi di euro (3,3% del Pil) a misure di stimolo fiscale contro la crisi. Di queste circa la metà sono dovute a nuovi ammortizzatori sociali e a quelli già esistenti. Il programma di spesa tedesco (102 miliardi, 3,5% del Pil) prevede aiuti alle famiglie con sgravi fiscali e sussidi per le famiglie a più basso reddito, insieme a un allargamento dei sussidi di disoccupazione esistenti. Meno attivo su questo fronte il governo francese che ha recentemente promesso 1,4 miliardi di euro alle famiglie, accompagnati da sgravi fiscali.
Tutti i programmi insistono sui sussidi alle imprese e sugli investimenti in infrastrutture per rilanciare la crescita economica. Oltre a creare posti di lavoro nel breve periodo, molti governi presentano i loro piani anticrisi come un’occasione per aumentare la capacità produttiva nel lungo periodo e attuare misure di green economy: del tutto assenti nei piani italiano e polacco, gli investimenti verdi (non sempre facili da individuare) rappresenterebbero, in realtà, solo il 13% del Piano americano, il 19% del piano tedesco e l’8% nel piano francese. Solo la Cina, fra i maggiori Paesi, destinerebbe circa il 30% degli investimenti a misure di efficienza energetica.
All’inizio di aprile i G20 hanno sottoscritto a Londra una serie di impegni: più regole per i mercati finanziari, limitazione del segreto bancario, lista dei paradisi fiscali, ulteriori spese pubbliche fino a 5.000 miliardi di dollari per sostenere l’economia. Il principale risultato è stato l’aumento a mille miliardi di dollari dei fondi a disposizione del Fondo monetario internazionale, per aiutare soprattutto i Paesi dell’Est Europeo e dell’America Latina (e le banche loro creditrici). 50 miliardi dovranno essere riservati ai Paesi a più basso reddito. 250 sono stati dati a un fondo che dovrebbe rimediare al crollo del commercio internazionale. Si è parlato anche di riformare l’Fmi, dando maggiore rappresentanza ai Paesi più poveri e alleggerendo le condizioni imposte ai debitori. I G20 hanno affidato all’Onu il compito di monitorare l’impatto della crisi sui Paesi più poveri e hanno ribadito l’impegno a realizzare gli Obiettivi del millennio (ampiamente disattesi prima della crisi) e ridurre gli investimenti che generano CO2.
Impegni generici che non placano la paura dei mercati e, agli occhi di qualificati osservatori, sembrano insufficienti a risollevare il mondo dalla recessione.
Non ci salverà la crescita
I momenti di crisi fanno emergere la natura più profonda delle persone. E lo stesso vale per il sistema economico e i suoi principali attori: la lettura delle misure anti-crisi permette di comprendere meglio le priorità di chi ci governa. Il primo dato che emerge dall’azione dei governi è che le banche non possono essere lasciate fallire. I massici interventi degli Stati con ingenti iniezioni di liquidità e stanziamento di fondi di garanzia sono comprensibili alla luce del ruolo cruciale del credito nel sistema capitalistico; meno comprensibile è la “protezione” accordata agli azionisti, che hanno quasi sempre mantenuto i loro poteri di controllo, pur avendo dimostrato di non saperli usare bene. Il secondo dato è che l’attuale sistema non può permettersi “crisi di crescita”: l’aumento del Pil continua ad essere un imperativo per chi ci governa. La recessione ha fatto abbandonare tutti i propositi di virtuosità dei bilanci: mentre le entrate pubbliche si assottigliano a causa della congiuntura negativa, tutti i principali governi hanno deciso di investire risorse per sostenere investimenti e consumi.
Riusciranno queste misure di garanzia finanziaria e di stimolo fiscale a far ripartire l’intero sistema? Molti osservatori concordano che la crisi durerà ancora un po’, ma poi il sistema ripartirà. Pochi si chiedono invece quanto possa essere stabile la ripresa. I Governi cercano di tamponare la crisi, ma non sembra stiano facendo molto per rimuovere le cause che l’hanno generata, se non annunciare maggiori regole sui mercati finanziari. Il rischio è che la ripresa ci sia, magari anche vivace, ma che prepari ben presto nuove cadute.
Molti economisti (e qualche politico) ammettono oggi che una delle radici della crisi va ricercata nella sempre maggiore disuguaglianza. Tuttavia le misure anticrisi non hanno intenti redistributivi, né cercano di modificare le dinamiche che allargano la forbice dei redditi. Le recenti campagne contro i paradisi fiscali sembrerebbero voler penalizzare i redditi da capitale, in vista di una maggiore tassazione, ma vi sono forti dubbi sull’efficacia delle possibili misure concrete. Le misure dei governi a sostegno delle fasce più deboli rappresentano dei palliativi per ridurre l’impatto della crisi e impedire il crollo dei consumi, ma nessuno ha introdotto soluzioni strutturali. Una di queste sarebbe, ad esempio, il reddito di cittadinanza, che avrebbe il vantaggio di porre una soglia di garanzia contro la povertà e di spingere verso l’alto l’intera struttura dei salari, invertendo un trend negativo che dura ormai da decenni.
Un tassello importante per diminuire la disuguaglianza fra Paesi è invece rappresentato dalle politiche di sostegno ai Paesi in via di sviluppo (accanto a una riforma delle politiche commerciali e dei diritti di proprietà). Anche in questo caso colpisce l’entità dello stanziamento deciso dai Paesi del G20, che in tempi di crisi non può essere sottovalutato, ma anche la gestione dei fondi affidata al Fmi, a dimostrazione di una scarsa memoria o di una certa malafede. In passato il Fondo ha brillato più per i fallimenti che per i successi e la recente disponibilità ad accordare crediti senza imporre condizioni desta, quanto meno, qualche sospetto. Solo l’annunciata riforma del Fondo potrà dirci se questi soldi porteranno benefici reali ai Paesi del Sud del mondo.
Molti ambientalisti auspicano che questa crisi sia l’occasione per ripensare il nostro insostenibile modello di sviluppo. Anche in questo caso i piani anti-crisi rivelano differenti sensibilità: accanto alla scelta Usa per un New Deal verde, si evidenziano la cementificazione anarchica e il ritorno al nucleare del governo Berlusconi. E tutti concordano sul fatto che “la macchina” dei consumi debba tornare a correre: ci sono, dunque, molti ragionevoli dubbi sul fatto che la crisi ci stia rendendo migliori. Ciò che è certo è che essa renderà la vita più difficile alle prossime generazioni. Il debito pubblico, infatti, sale in tutti i Paesi e dovrà essere ripagato. Affinché ciò avvenga in modo indolore l’economia mondiale dovrà tornare a crescere a livelli uguali se non superiori a prima della crisi. Ma se così non sarà, i governi dovranno diminuire la spesa pubblica e/o aumentare le tasse. Il rischio concreto è che la crisi spinga verso un ulteriore smantellamento dello Stato sociale, una riduzione degli aiuti ai Paesi in via di sviluppo, uno sfruttamento più intenso e deregolamentato dei lavoratori, in nome della crescita e dei “sacrifici” per “tutti”. Il peso del debito potrebbe essere attenuato se i governi lasciassero correre l’inflazione. L’enorme quantità di moneta emessa dalle banche centrali e la carenza di molte risorse fondamentali, toccata drammaticamente con mano prima della recessione, rendono altamente probabile una nuova fiammata inflazionistica non appena le economie torneranno a crescere. Anche in questo caso, senza politiche redistributive e senza un forte sindacato, a farne le spese saranno soprattutto pensionati e lavoratori dipendenti, insieme ai Paesi più poveri che sperimentano ancora le conseguenze dalla crisi alimentare (vedi Ae 99).
Le tre risposte possibili
di Francesco Gesualdi*
Il dramma di questo sistema è la schizofrenia, l’incapacità, o forse la non volontà, di fare sintesi.
Da una parte giungono i lamenti delle cassandre che piangono la morte imminente del pianeta, dall’altra le grida festanti di chi brinda all’avvenire radioso del nostro benessere. Da una parte arrivano le suppliche degli scIenziati di ridurre i consumi di acqua, la produzione di rifiuti, di veleni, di anidride carbonica; dall’altra le esortazioni alla crescita da parte di economisti, tecnocrati, politici, seguaci della modernità. Questa stessa crisi presenta aspetti paradossali. È come se a macchina in corsa ci sia giunta la doppia notizia che una ruota è bucata e che la strada è piena di frane. Al sistema le frane non interessano, l’attenzione è solo per la ruota, l’obiettivo è cambiarla per rimettere l’economia in corsa il più in fretta possibile. Non interessa se acqua e petrolio sono in crisi profonda, se la natura non tiene il passo col nostro ritmo di consumo, se i rifiuti ci stanno sommergendo, se l’eccesso di anidride carbonica sta surriscaldando il pianeta con i noti effetti sul clima. Imprese e politici si occupano solo della crisi contingente, la loro parola d’ordine continua ad essere crescita o morte. Anche i sindacati spingono nella stessa direzione, la priorità sono i posti di lavoro, il pianeta può attendere.
Uno schiaffo ai sostenitori della decrescita, la conferma che finché non dimostreremo come sia possibile coniugare decrescita e piena occupazione, o meglio sicurezza per tutti, non avremo mai la gente dalla nostra parte. E allora perché non approfittiamo della crisi per elaborare un piano di uscita che sia socialmente accettabile?
Tre potrebbero essere le linee guida. Primo: la crisi non deve essere pagata dalle fasce sociali più deboli, ma dalle categorie più forti attraverso un inasprimento fiscale dei redditi alti per ottenere risorse da destinare agli ammortizzatori sociali e al rafforzamento di servizi pubblici fondamentali da garantire gratuitamente. Secondo: nel medio periodo possiamo salvare posti di lavoro ristrutturando i settori inutili e potenziando quelli utili. Alcune idee potrebbero essere la riconversione dell’industria dell’automobile verso la produzione di autobus, treni e altri mezzi pubblici, il passaggio dell’energia elettrica dai combustibili fossili a fonti rinnovabili, la riconversione dell’agricoltura dall’industriale al biologico. Rispetto alle produzioni utili da potenziare, ci sono non solo i servizi pubblici, la protezione civile e la difesa del territorio, ma anche il risanamento di molte infrastrutture collettive: la rete idrica che è un colabrodo, il patrimonio edilizio scolastico che cade a pezzi, la rete ferroviaria locale totalmente insufficiente.
Da non dimenticare, poi, il nostro debito nei confronti del Sud del mondo ridotto allo stremo da cinque secoli di saccheggio. Il pensiero è soprattutto per i Paesi più poveri che hanno bisogno di tutto: ospedali, scuole, trasporti, energia elettrica. Produrre per i loro bisogni è un modo intelligente per contribuire al loro sviluppo umano e sociale, sostenendo, nel contempo, la nostra produzione. Sullo sfondo di questa ristrutturazione la riduzione dell’orario di lavoro che rappresenta la terza linea guida. Idee semplici che potrebbero risultare vincenti.
* per Altreconomia ha appena pubblicato “L’altra via”