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Economie al tappeto. Riciclare come un afgano – Ae 3

Numero 3 – gennaio 2000Jamila parla rivolgendo il viso dolce non più giovane ai mucchietti di stoffa -azzurri, verdi, beige, più spesso scoloriti dal lungo uso- sparsi nell'ingresso di un ospedale di Kandahar. Non ci sono uomini, perciò dai mucchietti…

Tratto da Altreconomia 3 — Gennaio 2000

Numero 3 – gennaio 2000
Jamila parla rivolgendo il viso dolce non più giovane ai mucchietti di stoffa -azzurri, verdi, beige, più spesso scoloriti dal lungo uso- sparsi nell'ingresso di un ospedale di Kandahar. Non ci sono uomini, perciò dai mucchietti sono sbucati visi e occhi di donne accoccolate, pronte a ritirarsi nel sacco a piegoline che si chiama burqa, alla prima barba in vista. Quella di Jamina è una lezione e uno dei pochi modi per le donne di incontrarsi e uscire di casa. In verità, il governo talebano vieta l'istruzione femminile -infantile e adulta-. Molte sono le afghane che possono dire: “Sono laureata e mia figlia è analfabeta” (e anche, se è per questo: “Io mangiavo, mia figlia è malnutrita”; secondo la Fao l'insicurezza alimentare nel Paese è aumentata come in pochi altri posti al mondo, negli ultiimi vent'anni). Ma la lezione di Jamila è consentita perché speciale: “mine awareness”, istruzioni su come proteggersi dalle mine. E dai meno noti Uxo, ordigni inesplosi disseminati sui campi polverosi e sulle colline brulle dove pecore e capre chissà cosa mangiano. Jamila insegnava nelle scuole. Quattro anni fa fu licenziata come tutte le donne, con l'arrivo al potere degli “studenti islamici”. Ma grazie alle lezioni antimine, decine di donne come lei si sono riciclate professionalmente. Nafisa, 25 anni, di Herat, ritiene il suo lavoro utile, anche se preferirebbe ritornare a far scuola ai bambini. Per la bella ventunenne Alia, di Kabul, questo è invece il primo lavoro.
Questo Paese per vent'anni è stato una guerra (non ancora finita: i taleban occupano il 90% del Paese, ma alcune province del Nord sono in mano al loro avversario Massud, che ingiustamente ha una buona fama in Europa. Il problema è che potenze straniere continuano ad armare le due fazioni: Tajikistan, Russia, Iran con Massud. Pakistan, monarchie del Golfo e fino a ieri gli Usa, con i taleban). L'unica risorsa abbondante sembra essere rimasta la dignità. Ma qui la filiera dello sminamento -fra prevenzione dai pericoli, bonifica, riabilitazione, cura- offre posti di lavoro preziosi dall'inizio alla fine. Sono quattromila (di cui più di duemila sminatori) i dipendenti delle organizzazioni non governative autoctone che bonificano i territori con il coordinamento dell'Onu. Il loro salario, seppur magro, è almeno 5 volte superiore a quello di un professore o di un medico, dipendenti pubblici in un contesto dove le uniche spese del governo se ne vanno in armi. E le entrate? Interrotta l'economia formale e informale, ferme le esportazioni, i taleban campano con le tasse sulle coltivazioni di oppio da esportazione. Un davvero poco islamico business, cresciuto del 20 per cento nell'ultimo anno; sono invece già finiti gli alberi di legno pregiato, tagliati senza scrupolo ed esportati nei ricchi emirati del Golfo.
Ahmed Zei è un gigante tranquillo di 39 anni. Mentre esce dal corso di chimica industriale a Kabul, i sovietici entrano in Afghanistan. La sua famiglia fugge dalla guerra rifugiandosi in Pakistan. Là si laurea in Scienze politiche. Per alcuni anni soccorre i rifugiati, poi impara la mine awareness. Da anni è supervisore per l'organizzazione Omar, afghana, che lavora con sostegni anche europei, fra cui la Campagna italiana mine.
Invece il dottor Ashrafi è stato per decenni docente universitario di pedagogia a Kabul. Fino al 1992, quando i mujaidin arrivano al potere ma iniziano a farsi guerra fra loro. E distruggono Kabul, l'università e la casa di Ashrafi, che salva solo la vita. In Pakistan ha lavorato per agenzie di aiuto straniere. Alla fine è approdato alla mine awareness.
Sharifullah invece è un giurista. Tesi e ricerche sui diritti della donna nell'Islam! Ma 7 dollari al mese di stipendio sono davvero pochi, e così il prof adesso dirige l'ufficio di sminamento di Omar a Kabul. Là c'è un cuoco bravissimo, un altro riciclato: Noor Mohamed, 58 anni. Gestiva il Green Hotel, che era pieno di turisti. Inutile dire che è strachiuso.
Fra gli sminatori veri e propri, quante storie di vita. Ex operai – adesso le fabbriche sono chiuse. Ex militari – adesso l'esercito non esiste più, sostituito dalle milizie talebane. Ex ingegneri. Ex contadini. Laureati in lettere a spasso. Biologi senza più laboratori. Rifugiati che hanno voluto contribuire a sminare i villaggi d'origine. Oppure “lavoratori delle emergenze” da venti anni.
Sminare è mestiere pericoloso, ma sempre meno. L'anno scorso “solo” due incidenti mortali in tutto il Paese. Kahimullah era caposquadra. Ha perso una gamba sul lavoro, due anni fa, allora l'hanno preso come guardiano. Le terre bonificate sono come una creazione. Mentre basta una sola mina per interdire alle attività uno spazio enorme, la liberazione attira persone e lavoro. L'agenzia Onu che coordina lo sminamento ha studiato l'impatto socioeconomico -quello umano è scontato: meno morti, meno amputati- della bonifica di 2.400 campi minati pari a 315 chilometri quadrati. Ogni anno, il reddito generato è stato pari al doppio della spesa. Sulle terre bonificate sono tornati 1,53 milioni di rifugiati e sfollati. Che hanno ripreso a lavorare e produrre, creando ricchezza: 14,2 milioni di dollari all'anno in agricoltura, e 43,4 milioni nell'allevamento. Certo, parlare di ricchezza è ridicolo: il Paese è così vuoto che a tornare in Italia si ha l'impressione che ci sia qualcosa di irreale, o là o qua da noi…
Alcuni ritornati hanno avviato piccole imprese. Mohamed Jassaf è di nuovo nel villaggio di Kartah dopo anni di assenza. Ha ricostruito la casa e messo su una bottega di sarto, mentre il padre coltiva un ettaro. Guadagnano bene! 50 dollari al mese. E senza rischi. Non è lo stesso per i lavoratori delle minifonderie che recuperano ferro dagli ordigni.
Recupero di terre. Di persone. Di materiali. Anche nella fase finale della filiera: le fabbriche afghane che confezionano protesi per i 40mila amputati del Paese. Decine di vittime di guerra lavorano sotto la supervisione dell'italiano Alberto Cairo. Bene, anche lui ha cambiato lavoro, come tutti in questa filiera: era dirigente industriale in Piemonte.
E infine di che sono fatte le protesi? In gran parte, di materiali poveri, recuperati. Così il ciclo si chiude.



Fondere i mortai forgiare i vomeri
Non sarebbe il riciclaggio che ogni pacifista si augura? Questo cortile-fonderia è disseminato di rottami di artiglieria, mortai, bombe, rinvenuti abbondanti nei dintorni, che furono campi di battaglia; li aspetta, là a sinistra, il forno che li scioglierà in ferro: materia prima per attrezzi agricoli carenti nel Paese. Una delle poche attività produttive in Afghanistan. Il proprietario, un vecchio afghano con barba, turbante e aria mite, dà lavoro a una ventina di operai; ma non trascuriamo l'indotto: adulti e bambini della zona -siamo nel distretto di Gazara, provincia di Herat- arrotondano il reddito spigolando ferraglia.
Eppure, questo “lavoro” è vietato. Perché? Ecco perché. Sotto gli occhi di due bimbetti, Syed Karim, esperto di esplosivi e supervisore degli sminatori nell'Afghanistan occidentale, che con qualche cautela estrae da un mucchio di ferraglia “una granata Aga 614, inesplosa, ed ecco il detonatore. Tranquilla, scoppia solo se tocco questo preciso punto”. Un po' più in là, ecco un mortaio con la spoletta. Insomma: fra i rottami di armi si trovano mine di tutte le fogge e Uxo, ordigni inesplosi ma ancora attivi. Che fare? Rinunciare a tutto questo ferro? O organizzare meglio questa speciale filiera, ad esempio insegnando ai raccoglitori a prelevare solo i rottami innocui… Dice però l'ingegner Naik dell'organizzazione di sminamento Omar: “Nessuno in Occidente mi darebbe una lira per questo, e l'attività solleva dubbi”.



Wanted Osama
La scatoletta di cerini è di un bel verde Islam, essendo un regalo del Dipartimento di Giustizia statunitense ai cittadini pakistani. Nel Far West si incollavano le taglie agli angoli delle polverose strade; ma i gadget sono più moderni e graditi. Promettono dunque, i cerini, ben 5 milioni di dollari a chi contribuirà alla cattura di quel barbuto e turbantato la cui fotografia correda il testo in urdu e arabo. È Osama Bin Laden, il miliardario saudita mandante, secondo gli Usa, degli attentati alle ambasciate americane in Africa. Lui!, che era amico di Washington e della Cia quando insieme rifornivano di armi i mujaidin in lotta contro il regime filosovietico afghano. Adesso si nasconde in Afghanistan. È per questa ospitalità che l'Onu, su richiesta Usa, impone sanzioni economiche all'Afghanistan. Ma i taleban non mollano, con Osama si sentono in debito. Veramente dovrebbero esserlo anche con gli Usa che via Pakistan li hanno riforniti di armi e soldi. Comunque: volete guadagnare dai 5 ai 7 milioni di dollari? Grazie al progett Rewards for Justice basterà dare informazioni utili alla cattura di individui che avrebbero compiuto o tentato atti di terrorismo ai danni della patria. Foto segnaletiche nel sito www.heroes.net.


Situazione esplosiva
Superficie ancora da sminare: 725 kmq, di cui 315 considerati ad “alta priorità”, terre agricole, residenziali, strade, canali.
Vittime in dieci anni: 60mila (il 36% bambini), di cui: circa 17mila morti, circa 29mila mutilati, circa 14 mila feriti.
Sminatori afghani in servizio: 2 mila
Cani sminatori in servizio: 58
Organizz. afghane di sminamento: 5 Superficie bonificata in dieci anni: 337 kmq
fra campi minati e campi di battaglia
Incidenti attuali: 10-12 persone al giorno
Conclusione prevista sminamento: 2009
Costo dello sminamento al metro quadro: circa 1.300 lire
Con un investimento di 20-25 milioni di dollari all'anno si generano 54 milioni di benefici
Coordinamento: Nazioni Unite
Finanziamenti: Unione Europea, governi, privati cittadini
Cosa puoi fare tu: campagna italiana mine, conto corrente 189241, intestato a Mani tese, piazzale Gambara 7/9, Milano
causale: Sminamento Afghanistan

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