Ambiente / Approfondimento
Ecco come la crisi economica ha anticipato il picco dei minerali
“Rosso record per Bhp Billiton. È il peggior risultato di sempre”. Titola Il Sole 24 Ore mercoledì 17 agosto a proposito dei conti di uno dei quattro colossi mondiali delle materie prime, che ha chiuso l’esercizio con 6,4 miliardi di dollari di perdita. È la spia del picco dei minerali, come bauxite, ferro o rame. Il mercato, infatti, vive un declino causato dalla sovrapproduzione, mentre in tutto il mondo la domanda sta calando. Il nostro approfondimento dal numero di maggio
Mentre pedalo verso la redazione osservo il telaio della bicicletta: è d’acciaio. Anche se non siamo abituati a pensarci, sono tantissimi i minerali che usiamo ogni giorno, a partire da quelli del ferro (da cui dipende l’industria siderurgica, e quindi anche l’acciaio), o la bauxite (da cui si ricava l’alluminio di cui sono fatte le scocche delle nostre auto, ma anche le caffettiere), o il rame (è in tutti i fili elettrici).
Minerali che oggi vivono una crisi da sovrapproduzione, mentre in tutto il mondo la domanda sta calando. I bilanci 2015 delle quattro maggiori aziende minerarie globali segnalano come l’industria estrattiva -a fronte di una crescita considerevole dei minerali estratti- stia vivendo una stagione di profonda sofferenza: gruppi multinazionali attivi in tutto il mondo e abituati a fatturare tra i 30 e i 50 miliardi di dollari all’anno -si tratta di AngloAmerican, BHP Billiton, Rio Tinto e Vale-, negli ultimi dodici mesi hanno registrato una contrazione dei guadagni che va dal 25 al 36%.
Nel 2016, Rio Tinto ha dimezzato i dividendi, mentre gli azionisti di BHP Billiton hanno visto tagliare la cedola del 75%, e -come segnala Reuters– è la prima volta che accade dal 1988.
Per spiegare quello che sta accadendo partiamo dai numeri: nel 2015, sono stati estratti 3.320 milioni di tonnellate di minerale del ferro, e la produzione è più che triplicata rispetto al 2000; per quanto riguarda il rame, la produzione nel 2015 si è attestata a 18.700 migliaia di tonnellate (contro 12.900 nel 2000). È più che raddoppiata anche la produzione di bauxite, fino a 274 milioni di tonnellate (erano 127 milioni 15 anni fa).
E la crescita continua nonostante “secondo le proiezioni, il prezzo dei metalli è destinato a scendere in media del 10% nel corso del 2016, a causa della domanda nelle economie emergenti (in special modo la Cina) in fase di rallentamento, cui si accompagna un aumento nella capacità di produzione”, come spiega la Banca mondiale, nel suo Commodity Markets Outlook (gennaio 2016).
La crisi non è passeggera: dopo che tra il 2013 e il 2015 il rame ha perso in media il 24,9% del proprio valore, la discesa è continuata anche nei primi mesi del 2016: da 7.332 dollari per tonnellata, a 4.954. Per quanto riguarda i minerali di ferro, nello stesso periodo il crollo è stato ancora più drastico, e pari al 58,6% (da 135 a 56 dollari per tonnellata).
Alla base di tutto c’è una “questione cinese”: il Paese asiatico è arrivato a consumare, nel 2015, oltre il 50 per cento di tutti i “metalli raffinati” (alluminio, rame, piombo, nickel, stagno e zinco) a livello globale, e a partire dal 2005 l’incremento della domanda globale è dipesa quasi unicamente dall’aumento di quella cinese, guardando ai dati del World Bureau of Metal Statistics. Anche oggi il prodotto interno lordo cinese continua a crescere, ma a tassi ridotti -il 6,9% nel 2016- rispetto agli ultimi 25 anni.
La previsione che i mercati sarebbero cresciuti per sempre ha guidato l’espansione della produzione, con l’apertura di nuove miniere (il settore dà lavoro a 30 milioni di persone in tutto il mondo, secondo l’ILO, l’Organizzazione internazionale del lavoro) e oggi questi fattori guidano a un paradosso: il “picco dei minerali”, ovvero il momento in cui non conviene più scavare per estrarre un determinato minerale, dipende non da cause fisiche e geologiche (la riduzione delle riserve) ma ha motivazioni fondamentalmente di natura economia. L’uomo ha anticipato il “picco dei minerali”, suggeriscono i bilanci delle big four dell’industria estrattiva. Non è un caso se l’epoca in cui viviamo sia chiamata Antropocène. Ugo Bardi, chimico e professore associato al Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze, una decina di anni fa descrisse in un articolo come fosse già stato raggiunto il “picco” di produzione per 11 minerali -tra questi ci sono il mercurio e il piombo-, a partire dalle serie di dati messe a disposizione dallo United States Geological Survey. Oggi, però, lo stesso Bardi spiega che quella lettura dei dati (in un’altra epoca storica, prima della crisi), corretta, non comprendeva un elemento: “Non siamo stati in grado di prevedere l’effetto di una contrazione della domanda, e quindi guardavamo alle ragioni ‘fisiche’ del picco. Questo però è chiaramente influenzato anche da variabili economiche”.
I “picchisti”, racconta Bardi, prevedevano inoltre che il momento del picco sarebbe arrivato con prezzi molto alti, e in questo modo si esponevano alle critiche degli economisti, secondo i quali fin tanto che aumenta il prezzo (o, meglio, la quotazione, dato che i metalli hanno la propria borsa di riferimento, che è la London Metal Exchange, LME), sarebbe aumentata anche all’infinito anche la capacità, e non sarebbe mai arrivato il momento in cui produrre un minerale, o il petrolio, sarebbe diventato economicamente non conveniente.
Secondo Bardi, il comportamento dell’industria estrattiva è razionale, ma solo entro le proprie esigenze. Stanno producendo in perdita, ma se non producessero perderebbero ancora di più: solo nel caso del petrolio, dopo un anno e mezzo di basse quotazioni, l’inerzia del sistema sta portando a rivedere al ribasso le stime di produzione, o a cedere “giacimenti” (come dimostra il nuovo Piano strategico di ENI, vedi a p. 25).
Perché si continua a produrre, nonostante i prezzi bassi? “Perché comunque incassi, anche in perdita: è una variabile che non avevamo previsto, le spese per investimenti e quelle di natura finanziaria necessarie per avviare la produzione. A queste condizioni, si produce comunque, e si smette solo fallendo”. Per aver un’idea delle dimensioni di questi investimenti, basti pensare che Rio Tinto ha recentemente avviato la seconda fase di sviluppo della miniera di rame e oro denominata Oyu Tolgoi, in Mongolia e in joint venture con il governo mongolo, che prevede un investimento di oltre 4,4 miliardi di dollari che andranno ad aggiungersi ai 6,4 già spesi. Tra i finanziatori c’è anche l’italiana Intesa Sanpaolo. Il giacimento dovrebbe avere una vita utile di 50 anni. Si andrebbe a scavare fino a una profondità di 1.300 metri, sfruttando una rete di 200 chilometri di tunnel. Là sotto -secondo Rio Tinto- è concentrato l’80 per cento di tutta la ricchezza di Oyu Tolgoi.
Ha senso continuare a scavare le viscere della terra? “L’industria mineraria è come un ‘pistolero’ nel far west, che muore con gli stivali ai piedi: l’industria andrà in fallimento mentre continua a produrre” scherza Ugo Bardi.
Traduciamo: non si possono fermare, e non esistono variabili sociali ed ambientali capaci di influenzare le scelte “strategiche” di questi grandi gruppi.
Nel novembre del 2015, in Brasile, nello stato di Minais Gerais, è crollata una diga: non conteneva acqua, ma i fanghi di una grande miniera di ferro, gestita da una società il cui nome è Samarco Mineracao S.A.: il 2 marzo scorso, Vale e BHP Billiton -entrambi soci al 50 per cento della Samarco- hanno comunicato di aver raggiunto un accordo con il governo brasiliano, e che verseranno nei prossimi vent’anni 5,1 miliardi di dollari per le attività di riparazione e di compensazione legate al disastro. Dalla diga sarebbero usciti almeno 32 milioni di metri cubi di fanghi, che seguendo il corso del Rio Doce hanno raggiunto la costa brasiliana (la lingua marrone che attraversava il Nord-est brasiliano ha fatto capolino per la prima volta da decenni anche sulla stampa e sui media italiani). L’annuncio dell’agreement con le autorità brasiliane per Samarco era funzionale a un altro: entro il quarto trimestre dell’anno, la miniera tornerà operativa, anche se con una capacità ridotta, di 19 milioni di tonnellate all’anno invece di 30. “Siamo concentrati sulla riapertura” ha detto il CEO Roberto Carvalho, parlando con l’agenzia Reuters.
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