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Dopo l’età dello spreco – Ae 58

Numero 58, febbraio 2005Il dogma della crescita ci affonda in un’opulenza iniqua e violenta. La sobrietà è una rivoluzione economica e sociale ma dobbiamo anche cambiare idea sul lavoro, le tasse, l’economia pubblica Che si tratti di un libro insolito lo…

Tratto da Altreconomia 58 — Febbraio 2005

Numero 58, febbraio 2005

Il dogma della crescita ci affonda in un’opulenza iniqua e violenta. La sobrietà è una rivoluzione economica e sociale ma dobbiamo anche cambiare idea sul lavoro, le tasse, l’economia pubblica
 
Che si tratti di un libro insolito lo si capisce dalla prima pagina che, invece di un’introduzione ha un “Appello”.
Un appello a reagire, a pensare, a rimboccarsi le maniche e a sperimentare “nuove pratiche”. Che il vecchio sistema non funzioni più l’abbiamo capito, ora bisogna trovare delle soluzioni inedite, e bisogna trovarle insieme. Questo è, alla fine, l’obiettivo di questo nuovo libro di Francesco (Francuccio) Gesualdi pubblicato da Feltrinelli: “Sobrietà: dallo spreco di pochi ai diritti per tutti”.

Francuccio lo definisce “il punto di arrivo del mio pensiero”. Un primo tentativo di stesura risale a 4 o 5 anni fa. Ma le riflessioni non erano ancora mature. Poi, nell’estate del 2003, l’organizzazione di un seminario al Centro nuovo modello di sviluppo (famoso per la sua “Guida al consumo critico” e per le sue campagne di pressione e di boicottaggio) e quindi il via alla stesura. Il tutto è pronto per essere spedito all’editore nell’aprile 2004, il resto sono i tempi tecnici stabiliti da Feltrinelli. In mezzo l’occasione per alcune limature.
C’è tutto Francuccio in questo libro, quello che ha imparato, elaborato e discusso in questi anni: la crisi del sistema, l’equità da costruire tra Nord e Sud, alcuni concetti che ama molto (la necessità di dimagrire da un’opulenza iniqua e violenta, la differenza tra resistenza e desistenza, le cinque R: ridurre, riutilizzare, riparare, riciclare, rallentare), la sua libertà di pensiero e una scrittura chiara e diretta.
Ma poi c’è anche lo sforzo di cercare le soluzioni o, come scrive lui, di “immaginare l’inesistente”. Un compito urgente: “Abbiamo poco tempo a disposizione -scrive nell’Appello-, vari segnali ci indicano che il pianeta è sull’orlo del tracollo sociale e ambientale. Tuttavia ci sono ancora dei margini di recupero e questo ci carica di una responsabilità particolare”.

La chiave della soluzione -scrive Francuccio- è racchiusa nella parola “sobrietà”. Di qui il titolo del libro. “Apparentemente, la sobrietà è solo una questione di stile di vita. In realtà, è una rivoluzione economica e sociale che manda in frantumi il principio su cui è costruito l’intero edificio capitalista. È il principio della crescita, invocato non solo dalle imprese, ma anche da chi si batte per i diritti, in base al credo che senza crescita non possa esistere sicurezza sociale né piena occupazione”.
 
Dopo aver letto questo libro, mi è venuta voglia di sapere quando l’ha scritto, all’alba o nei ritagli tra un’attività e l’altra (Francuccio di lavoro fa l’infermiere, poi ha le iniziative del Centro nuovo modello di sviluppo da curare ed è spesso in giro per l’Italia a tenere conferenze), e che cosa ne pensano sua moglie Niva e le sue figlie.
Le nipoti, che lo adorano e che lui ricambia di un amore tenerissimo, sono ancora troppo piccole per chiederglielo.
Mi piacerebbe sapere dove ha scritto le pagine sulla sobrietà come stile di vita, se sotto la grande pianta con l’altalena (che chiunque abbia visitato il Centro d’estate ben conosce per la sua frescura), oppure nella biblioteca con i mattoni a vista, la luce bassa e i segni della vecchia architettura contadina restaurati oltre vent’anni fa quando il Cnms ha preso vita.

“Sobrietà non significa ritorno alla candela o alla morte per tetano, significa eliminare gli eccessi e rimodellare il nostro modo di produrre, consumare e organizzare la società. Siamo così abituati all’abbondanza, che l’idea di vivere diversamente ci spaventa… e non solo per i cambiamenti nello stile di vita personale. Ci spaventa anche per i suoi risvolti sociali. Se consumiamo di meno, come creeremo posti di lavoro? Se produciamo di meno, e con minori guadagni, chi fornirà allo Stato i soldi per garantirci istruzione, sanità, viabilità, trasporti?”
 
Pensare l’inesistente espone a rischi e accuse di tutti i tipi (una su tutte: “sono utopie”). Francuccio lo sa bene: “Quello che ho scritto può avere 100 mila limiti, magari non funziona, ma ho messo il dito nella piaga. I problemi che sollevo esistono o non esistono? Troviamo insieme delle soluzioni. Siamo nel deserto: se qualcuno ha altre idee le tiri fuori”. Lui rivendica la libertà di sognare, anzi la necessità di sognare (e anche di questo gli siamo enormemente grati), ma poi si sforza di confrontarsi con la realtà, e con tutte le domande che da questa sorgono. “È possibile vivere bene con meno? È possibile coniugare sobrietà con piena occupazione e garanzia dei bisogni fondamentali per tutti?”
 
E qui comincia il cuore del libro, la parte che farà più discutere ma anche la più affascinante, la più nuova. Francuccio disegna scenari da sognatore, e ti inquieta per quanto sembrino non stare né in cielo né in terra. Ma poi tutte, o quasi, le obiezioni che muoveresti tu, lui le raccoglie, se ne fa carico. E allora ti riconcili, ti incuriosisci, ti chiedi come se la caverà. Insomma, come andrà a finire. Come andremo a finire. E continui a leggere e a chiedere.
 
Per esempio: se non possiamo più crescere, come ci garantiremo il futuro?
L’impresa è possibile, sostiene Francuccio, distinguendo tra desideri e diritti, ridimensionando il ruolo del denaro e del mercato (il mercato può andare bene per i desideri, per il superfluo, non per i diritti, cioè per l’essenziale), ripensando il lavoro (“la funzione del lavoro non è guadagnare un salario, ma soddisfare i nostri bisogni… Più cose riesci a fare da te, meno soldi ti servono”), il sistema delle tasse (che possono essere pagate in “tempo lavoro”, in prestazioni dirette invece che in denaro), la tecnologia, ma, soprattutto, sperimentando una nuova “economia del bene comune” che produce direttamente tutti i beni e i servizi essenziali.
 
Ma è possibile anche grazie a comunità locali che tornano a funzionare in base al principio di solidarietà (“la vera ricchezza non è il denaro ma una società coesa”) e al principio “tempo in cambio di sicurezze”.
“Il patto fra comunità e cittadini potrebbe essere definito su una base semplice. Ogni adulto, per esempio, mette a disposizione dieci giorni al mese, e in cambio si garantisce il diritto, per sé e i propri familiari, di accedere, gratis, a tutti i servizi pubblici… Il patto dovrebbe poi includere una sorta di reddito di cittadinanza garantito a tutti, abili e inabili, uomini e donne, ricchi e poveri”.
Bisogna superare la vecchia mentalità socialdemocratica -spiega l’autore- per la quale esisteva la “grande mamma Stato” che risolveva tutti i problemi e tutto convergeva verso il centro. Quello che ci serve è una nuova prassi comunitaria, farci carico direttamente dei bisogni che nascono dal territorio. Nessuno Stato, per quanto ricco, potrà rispondere a tutti i bisogni che abbiamo o avremo: il bisogno di assistenza degli anziani per esempio. Senza contare che anche gli enti locali hanno sempre meno soldi da spendere. Un buon vicinato potrebbe risolvere molti di questi problemi e anche per questo sarebbe intelligente pensare a una partecipazione diretta ai servizi.
 
Utopia? Tutto ciò che è nuovo, risponde Francuccio, appare all’inizio come un’utopia.
E non ha tutti i torti: se noi sogniamo un mondo con rapporti economici diversi ci danno degli utopisti; ma se, in ambito scientifico, progettano un giorno di colonizzare la Luna, o di clonare il cuore di un uomo, ci dicono che è solo questione di tempo.
È che, in ambito sociale ed economico, siamo come intossicati, incapaci di ragionare con altre logiche, altri criteri.
Un’ultima domanda per Francuccio, mentre finisce di cucinare la cena per la piccola comunità di famiglie che vivono al Cnms: se dovessi estrarre dal libro una proposta concreta da cui incominciare, quale indicheresti? La risposta è immediata.“Il servizio civile obbligatorio. Ricostruirebbe un tessuto sociale, ci aiuterebbe a rafforzare lo spirito di comunità. Potrebbe essere un piccolo passo, e magari un cavallo di battaglia per i movimenti”.
Il sasso è lanciato. Ora, gente, se volete leggere, cercate poi anche di sperimentare.

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