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Costa D’Avorio: golpe al profumo si cacao – Ae 4

Numero 4 – febbraio 2000Gli ultimi piani anneriti dal fumo del palazzo della Ivoiris (uno dei tre operatori di telefonia mobile della Costa D'Avorio) sono uno dei pochi segni rimasti ad Abidjan dei disordini del colpo di Stato. Pochi giorni…

Tratto da Altreconomia 4 — Marzo 2000

Numero 4 – febbraio 2000
Gli ultimi piani anneriti dal fumo del palazzo della Ivoiris (uno dei tre operatori di telefonia mobile della Costa D'Avorio) sono uno dei pochi segni rimasti ad Abidjan dei disordini del colpo di Stato. Pochi giorni di violenza che sono serviti al generale Robert Guei per giustificare la presa del potere da parte dei militari, necessaria per ristabilire l'ordine.
Fino alla vigilia di Natale la Costa d'Avorio sembrava il Paese più tranquillo della regione, anche se il miracolo economico degli anni Settanta era ormai lontano. Il Paese è uno dei maggiori produttori di cacao nel mondo, ma sta perdendo il primato e la costante discesa del prezzo sul mercato internazionale ha messo in crisi non pochi produttori. Anche l'esportazione del legname, per buona parte in mano a industrie italiane, è calata in seguito alla deforestazione selvaggia. Nei discorsi della gente si percepiscono attesa e preoccupazione; nessuno si sbilancia, ma tutti parlano della corruzione del passato regime e delle tensioni etniche e regionalistiche che si rispecchiano negli schieramenti politici, e questi saranno i temi della campagna elettorale che si apre nel Paese. Guei ha promesso di far luce sulla corruzione nei ministeri, cominciando con l'inchiesta aperta sulla sparizione di 18 miliardi di franchi Cfa destinati alla Sanità, in cui oltre all'ex-ministro competente e alcuni alti funzionari, sembra coinvolta anche la moglie del presidente deposto Henri Konan Bedié.
La Comunità Euro-pea, da cui provenivano i soldi, aveva avviato con il governo precedente una trattativa per la restituzione, ma il generale ha dichiarato che lo Stato ivoriano non li restituirà: dovranno renderli quelli che li hanno rubati.
La battaglia dei dossier è appena cominciata. La prima decisione della giunta militare al potere è stata di congelare il pagamento del debito estero: le casse dello Stato sono quasi vuote e i soldi rimasti servono per pagare gli stipendi. Al momento della presa del potere il generale aveva promesso di costituire in due giorni un governo di transizione, formato da militari e rappresentanti dei principali partiti di opposizione al vecchio regime: il Front Populaire Ivoirien (Fpi) di Laurent Gbagbo e il Rassemblement des Repubblicains (Rdr) di Alassan Quattara. Per convincere il Fpi ci sono voluti dieci giorni di trattative, perché secondo Gbagbo i militari presenti nel governo, provenienti dalle regioni del Nord del Paese, erano in realtà uomini di Quattara. Solo la concessione di due ministeri in più al Fpi ha permesso alla fine di formare il governo, da cui sono comunque restate fuori alcune formazioni minori.
Alassan Quattara ha fatto la sua carriera nel Fondo monetario internazionale: quando era primo ministro, ha cercato di applicare le ricette del Fondo alla disastrata economia del Paese, e questo naturalmente non ha contribuito alla sua popolarità. Il deposto presidente vedeva in lui un pericoloso avversario per le prossime elezioni presidenziali. La sua forza è soprattutto al Nord del Paese e nelle zone rurali, ma le elezioni, quando ci saranno, saranno le prime nella storia della Costa d'Avorio in cui la maggioranza dei votanti si trova nelle aree urbane. Gbagbo è invece l'eterno oppositore. Ha passato alcuni anni in prigione per motivi politici, è cattolico e molto popolare, soprattutto nelle città, ma non ha esperienza di governo e molti si chiedono cosa farà se dovesse vincere. Guei ha promesso le elezioni per il prossimo ottobre e se si presentasse sarebbe il favorito. Per ora il generale non si pronuncia, cercando di mostrarsi al di sopra delle parti, ma non è escluso che i notabili del Parti Democratique de Côte d'Ivoire che hanno abbandonato il vecchio presidente al suo destino, scelgano proprio lui come candidato per restare al potere.



Donne di karitè Chi lavora per il commercio equo
I Kulango sono uno dei numerosi popoli della Costa d'Avorio, situato nella zona di savana a Nord Est del Paese, ai confini col Ghana. È una regione limitata a Ovest dal corso del fiume Comoè e a Nord dalla vasta estensione del parco naturale che prende il nome dallo stesso fiume. Un'unica strada asfaltata la attraversa da Sud a Nord e va verso il Burkina Faso, mentre la direzione Est-Ovest è percorsa da una pista che termina sul fiume; un piccolo traghetto è l'unico mezzo di attraversamento.
La popolazione Kulango conta circa 300 mila persone, che per la maggior parte vivono in piccoli villaggi collegati da piste spesso in pessime condizioni. Il centro più importante è Nassian, poco più di un villaggio, con circa 2 mila abitanti, che è sede della Sottoprefettura, e qui si trova il gruppo di donne che lavorano le noci di karitè, ricavando il burro che Equo Mercato ha iniziato a importare in Italia dall'anno scorso. Madame Dolphine, una bella donna alta e statuaria, con un bambino di un anno che sposta continuamente dalla schiena al seno, fa da portavoce al gruppo e spiega che il karité è un grande albero che cresce spontaneo nella savana ed è considerato sacro dai Kulango. Non si può abbatterlo o sradicarlo e nemmeno percuoterne i rami per favorire la caduta dei suoi frutti, che maturano tra marzo e aprile e che vengono raccolti da terra. Il frutto è costituito da un leggero strato carnoso e commestibile, che presto secca e rimane sul terreno, mentre la noce contenuta all'interno è la parte utile per la produzione del burro. Gli strumenti di lavoro fondamentali sono il mortaio e la mazza a due teste con cui le donne macinano tutto quello che deve essere macinato. In due, tre o quattro pestano nello stesso mortaio, accompagnando il duro lavoro con canti, grida, e risate divertite.
Una prima macinatura separa i semi veri e propri dalla sottile buccia che li ricopre. I frammenti di semi che via via si liberano dovranno rimanere all'aria ad essiccare. Poi la macinatura riprende e i frammenti vengono passati al setaccio, mentre i pezzi troppo grossi devono essere pestati ancora, fino a che tutto non è ridotto a una polvere marrone.
Finalmente si arriva alla fase finale della lavorazione: la polvere viene rimessa nei mortai, viene aggiunta dell'acqua e si riprende a battere finché alla superficie non comincia ad affiorare uno strato di grasso che viene raccolto con una calebassa (una mezza zucca usata come un grande cucchiaio) e versato in una pentola che verrà messa sul fuoco per riscaldarlo fino a eliminare completamente l'acqua. Vengono aggiunti limone o citronella per correggere l'odore del grasso e alla fine, dopo il filtraggio e il raffreddamento, il grasso si presenta suddiviso in due parti, una solida biancastra, e una liquida. Per ottenere il burro è necessario emulsionare queste due fasi, sbattendole con un semplice strumento fatto da un ramo a forma di freccia. Quando il prodotto comincia ad acquistare la consistenza di una crema è pronto.
Nel periodo della raccolta, tutto questo lavoro dura diverse settimane, e la resa è molto bassa: da dieci chili di noci si ricava non più di un chilo di burro. Il mercato paga per tutto questo lavoro un prezzo irrisorio: un chilo di burro spuntava lo scorso anno non più di 300 franchi Cfa (900 lire!).
Per questo la produzione tradizionale nei villaggi va scomparendo, sostituita, nelle periferie dei centri maggiori, dall'uso di mulini e presse che riducono fortemente il carico di lavoro e migliorano la produttività, portando la resa in burro a circa il 30 per cento del peso delle noci. Le donne dei villaggi restano escluse da questa possibile fonte di reddito, pagate una miseria per portare le noci ai punti di raccolta. Il prezzo che il commercio equo paga per i barattoli di burro è quasi 40 volte più alto di quello del mercato. Così le donne hanno ripreso la produzione tradizionale nel villaggio e i soldi guadagnati servono per iscrivere i figli a scuola e per comprare libri e quaderni, o per le medicine.
Sono una quindicina le donne di Nassian che lavorano alla produzione del burro di karité e un altro gruppo analogo lavora in un villaggio una quarantina di chilometri più a Nord.
In Italia il burro ha avuto successo e quest'anno la produzione potrà aumentare. Le donne stanno già pensando a come organizzarsi e a darsi un regolamento per far entrare altre nel loro gruppo di produzione. Arriveranno altri soldi e assieme dovranno decidere come utilizzarli. Un mulino per macinare le noci potrebbe aumentare la produzione. Difficile prevedere cosa porterebbe un motore diesel in un villaggio. Saranno comunque le donne a decidere.



Surrogato del burro di cacao
La produzione di noci di karité è concentrata nei Paesi dell'Africa occidentale subsahariana, ed è stimata in 600 mila tonnellate, utilizzate per la maggior parte come grasso alimentare. Si stima che circa 50 mila tonnellate di noci di karité vengano esportate ogni anno, soprattutto verso l'Europa e il Giappone, dove il burro è utilizzato come surrogato del burro di cacao per la produzione di cioccolato e dolci (solo il 5 per cento circa del burro di karitè esportato viene usato per produrre cosmetici). I maggiori esportatori sono società danesi, svedesi e inglesi, e il prezzo pagato è di circa 300 dollari per tonnellata per le noci e 1000 dollari per il burro.



Miste culture
Il progetto di Equo Mercato

Danielle è francese, ma ha lasciato il suo lavoro di insegnante 14 anni fa per venire in Costa d'Avorio, seguendo il sogno dell'Africa che coltivava fin da bambina. William è ghanese ed è arrivato qui per curare le conseguenze della poliomielite che lo ha costretto su una carrozzella. Al centro Don Orione di Bonua non hanno potuto fare molto per le sue gambe, ma lo hanno aiutato a ritrovare la fiducia nella vita, e qui ha conosciuto Danielle. Si sono sposati e hanno lavorato assieme per anni portando aiuto ai carcerati nella prigione di Abidjan, mentre la loro casa si trasformava in un punto di riferimento per molti disperati del quartiere, e ora questa casa è anche la base di partenza per il commercio equo e solidale in Costa D'Avorio. Tutto è cominciato quattro anni fa, quando le cooperative Equo Mercato di Cantù e Commercio Alternativo di Ferrara, decisero di sostenere la proposta di Eralda e Franco, due volontari del Clmc di Genova, che erano ad Abidjan per un progetto di collaborazione internazionale. Furono loro a prendere i primi contatti con gli artigiani e a preparare il primo container di prodotti. Poi Eralda e Franco tornarono in Italia e nel 1998 Donata e Massimo, soci di Equo Mercato, vennero ad Abidjan per riallacciare i rapporti con gli artigiani e trovare qualcuno che potesse incaricarsi della raccolta, del confezionamento e della spedizione dei prodotti. Abidjan è una città in rapida crescita, dove la gente arriva dalle regioni interne e dai paesi vicini, nella speranza di trovare un lavoro. Molti sono artigiani che contano sulla possibilità di vendere i loro prodotti ai turisti che arrivano nei villaggi-vacanza costruiti lungo la costa. Negli anni, lungo la strada da Abidjan a Gan Bassam, è nato un vero e proprio quartiere di botteghe, noto semplicemente come “carrefour “, anche se più che un incrocio è un lunga sequenza di baracche allineate ai due lati della strada, in cui centinaia di artigiani lavorano ed espongono i loro prodotti.
Coinvolgere alcuni di questi artigiani in un progetto di commercio equo ha voluto dire innanzi tutto superare diffidenze e chiusure tra i diversi gruppi, mettendo a frutto la ricchezza che deriva proprio da questa differenza di culture.
Ci sono i produttori di mobili in roten (canna simile al bambù) che provengono dal Mali, i Tuareg del Niger che lavorano la pietra e i metalli (argento e nichel) per farne monili, dal Burkina Faso arrivano gli strumenti musicali (maracas, calebasse con sonagli e balafon), un gruppo di donne ivoriane produce cesti in paglia e i tam tam sono fabbricati da artigiani del Togo.
La materia prima più utilizzata è il legno, da cui si ricavano le tipiche sedie intagliate, i giochi tradizionali come l'awalè e i solitari, le maschere, le ciotole e i vassoi di iroko.
Agli artigiani del “carrefour” si uniscono due cooperative di giovani che hanno frequentato il centro di formazione professionale di Bassan e che ora producono batik e oggetti in ceramica decorata: il piccolo gruppo di poliomielitici ed ex-carcerati che lavorano con William, che produce piccoli oggetti in legno e osso, e la sartoria messa in piedi al Centro Don Orione di Bonua da Anna Balbi. Dinamica signora genovese che ha lasciato il suo lavoro di sarta nell'86, per venire qui a insegnare la sua arte ai ragazzi poliomielitici. Gli incontri, le assemblee e il paziente lavoro di Danielle hanno convinto gli artigiani dell'utilità di lavorare assieme e ora le persone coinvolte nel progetto sono ormai un centinaio e il valore complessivo della merce acquistata supera i 23 milioni di franchi CFA. Nell'ultima assemblea tutti hanno accettato di rinunciare a una piccola percentuale delle loro entrate per costituire un fondo comune e per pagare l'affitto di un magazzino in cui stoccare la merce in attesa del container. È il primo passo verso una vera cooperativa multietnica che, in un Paese dove le tensioni tra etnie sono un pericolo latente, sarebbe davvero un bel risultato.
William è felicemente sorpreso di questi risultati e ha deciso di impegnarsi ancora di più nel lavoro. Farà riparare un trabiccolo a motore che da anni non funziona più e vuole cominciare a girare di persona tra gli atelier degli artigiani, parlare con loro del commercio equo e delle possibilità che si aprono se tutti collaborano davvero. Anche questo è un grande risultato: il suo cuore generoso, la sua autorevolezza e la sua capacità di trovare sempre le parole giuste, aiuteranno tutti a crescere.

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