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Ambiente / Opinioni

Comunità energetiche e riforma del mercato per una transizione rapida, equa e condivisa

© Hannah Busing - Unsplash

Il dibattito su transizione e “aree idonee” per fotovoltaico e pale eoliche mostra la complessità della decarbonizzazione del sistema energetico italiano. Aumentare drasticamente la penetrazione delle rinnovabili in modo socialmente ed ecologicamente giusto è fattibile (senza litigare). Ma richiede il supporto delle comunità e un’attenta gestione della rete. La proposta di Leonardo Setti

Il dibattito tra Nicola Armaroli e Paolo Pileri riflette le complessità e le sfide della transizione energetica. Da una parte vi è l’urgenza di adottare rapidamente le energie rinnovabili per mitigare la crisi climatica; dall’altra, c’è la necessità di assicurare che questa transizione sia ecologicamente sostenibile e socialmente giusta.

Questo dibattito rischia una forte polarizzazione che può portare all’immobilismo. È dovuto al fatto che in una fase di cambiamento radicale mancano quegli elementi amministrativi in grado di integrare entrambe le esigenze che si possono raggiungere soltanto con la valorizzazione delle comunità energetiche e la necessaria riforma del mercato elettrico.

Paolo Pileri solleva preoccupazioni valide riguardo agli impatti sociali ed ecologici del decreto governativo sulle “aree idonee” per l’installazione di impianti solari ed eolici. Sottolinea i rischi di un nuovo consumo di suolo, degrado ambientale e speculazione da parte di investitori privati. Tuttavia queste preoccupazioni possono essere affrontate e mitigate attraverso un modello di transizione energetica che ponga al centro le comunità locali e la sostenibilità.

Concordo con Pileri che è fondamentale evitare il consumo eccessivo di suolo e proteggere gli ecosistemi locali. Le comunità energetiche rappresentano una soluzione ideale in questo contesto. Incentivando l’installazione di piccoli impianti rinnovabili a livello locale possiamo ridurre l’impatto ambientale e promuovere un uso più efficiente delle risorse. La definizione delle “aree idonee” deve essere quindi un processo partecipativo che coinvolga le comunità locali. È essenziale che le Regioni collaborino con cittadini, agricoltori e altri stakeholder per identificare le aree più adatte, minimizzando gli impatti negativi e massimizzando i benefici locali.

Ed è per questo che la Valutazione di impatto ambientale (Via) deve rimanere uno strumento rigoroso e vincolante per garantire che le nuove installazioni siano sostenibili. Tuttavia, è possibile accelerare il processo senza compromettere la qualità delle valutazioni, attraverso l’adozione di criteri chiari e trasparenti. Infine, per evitare la speculazione, è necessario promuovere modelli di proprietà e gestione comunitaria degli impianti rinnovabili. Le comunità energetiche possono contribuire a democratizzare la produzione di energia, evitando la concentrazione del potere nelle mani di pochi investitori privati.

Nicola Armaroli sottolinea, invece, l’urgenza di affrontare la crisi climatica e i benefici delle energie rinnovabili. Concordo con Armaroli sull’urgenza della transizione energetica. Tuttavia, l’accelerazione non deve avvenire a scapito della sostenibilità ecologica e sociale altrimenti lo scontro conseguente rischia di condurre all’immobilismo. Le comunità energetiche possono contribuire a raggiungere gli obiettivi climatici in modo più equilibrato e inclusivo.

Le rinnovabili hanno impatti ambientali significativamente minori rispetto ai combustibili fossili. È fondamentale però che queste tecnologie siano integrate in modo sostenibile con l’agricoltura e altre attività locali. Le comunità energetiche possono favorire questa integrazione, promuovendo un modello di sviluppo armonioso e sostenibile.

Un elemento centrale, che a mio avviso costituisce il peccato originale di questo dibattito, è il funzionamento della rete elettrica e la necessità di una riforma radicale del mercato elettrico che sia adeguata alle mutate condizioni di produzione e di consumo. Fino al 2009 l’energia elettrica veniva prodotta dalle grandi centrali termoelettriche e idroelettriche e immessa nella rete di alta tensione per essere poi distribuita verso i circa 100mila utenti collegati in media tensione e 36 milioni di utenti collegati in bassa tensione.

Dopo il 2009, l’avvento delle rinnovabili moderne ha cominciato a portare le produzioni in maniera puntiforme nella rete di bassa tensione sotto ai 200 kW nelle cabine secondarie e nella rete di media per impianti sopra ai 200 kW collegati alle cabine primarie. Questo nuovo stato pone il funzionamento della rete elettrica italiana in modo bidirezionale, permettendo l’alimentazione della stessa sia dall’alta verso la bassa tensione, tramite le grandi centrali, sia dalla bassa verso l’alta tensione, attraverso i piccoli impianti rinnovabili.

Inoltre, la legge fisica che governa le comunità energetiche rende palese se non addirittura ovvio che sotto ognuna della 430mila cabine secondarie di bassa tensione, tutta l’energia immessa in rete dagli impianti fotovoltaici viene condivisa tra i contatori. Questo implica che la rete elettrica si comporti già come una grande comunità energetica di fatto.

Anche se questo è ben noto, la legge amministrativa attuale impedisce la valorizzazione economica dell’energia naturalmente condivisa tra i produttori e i consumatori al di sotto di quella cabina secondaria, inserendo l’intervento dello Stato e del mercato elettrico a definire il prezzo della compravendita di quell’energia di cui non sono proprietari e che costituisce un bene comune della comunità che la produce e la consuma a chilometro zero. Questa è la vera, reale e indiscutibile energia che dovrebbe essere tutelata per legge perché è quella della comunità e che appartiene a lei e solo a lei.

A partire dal primo gennaio 2025 il sistema tariffario dell’energia elettrica in Italia subirà una trasformazione radicale con l’eliminazione del Prezzo unico nazionale (Pun) e l’adozione di Tariffe zonali, che dovrebbero essere determinate in base alle dinamiche specifiche di produzione, distribuzione e consumo di energia nelle diverse zone del Paese. Questa riforma è destinata a influenzare profondamente il modo in cui l’energia viene prezzata e consumata, promuovendo un utilizzo più sostenibile delle risorse e un’attenzione maggiore alle specificità territoriali.

Il mercato elettrico del Nord Europa che comprende Norvegia, Danimarca, Svezia e Finlandia è già di tipo zonale e quello che si osserva è che le tariffe si abbassano generalmente in presenza di un’alta penetrazione di rinnovabili grazie alla riduzione dei costi di produzione e all’autosufficienza energetica. I grandi impianti rinnovabili sono più convenienti da costruire in aree con meno rinnovabili per sfruttare economie di scala, diversificare il mix energetico e beneficiare di incentivi economici e politiche favorevoli. Questo approccio può aiutare a bilanciare il sistema energetico nazionale, riducendo complessivamente i costi e la pressione sui territori a maggiore produttività, come la Sardegna, promuovendo criteri di sostenibilità.

Le Tariffe zonali offriranno quindi una tariffazione più equa e incentiveranno gli investimenti nelle energie rinnovabili a livello locale. Per sfruttare appieno il potenziale delle comunità energetiche è necessario però un riaccoppiamento tra il valore economico e il valore fisico dell’energia condivisa. Questa dovrebbe essere valorizzata come bene comune, con un prezzo tutelato definito dall’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (Arera) per tutta l’energia condivisa a livello locale sotto alle cabine secondarie per il solo motivo che sarebbe giusto così in quanto non è auspicabile che qualcuno speculi a mercato libero sull’energia condivisa nelle comunità. Questo modello favorirebbe la realizzazione di impianti a chilometro zero e promuoverebbe un mercato energetico più equo e sostenibile.

La discussione tra Pileri e Armaroli evidenzia una tensione tra la necessità di accelerare la transizione energetica per affrontare la crisi climatica e l’importanza di garantire che questa transizione sia ecologicamente sostenibile e socialmente equa. L’accelerazione richiede visione ma anche praticità e capacità di raggiungere gli obiettivi.

Se volessimo alimentare l’Italia utilizzando centrali nucleari occorrerebbero circa 26 reattori da 1.800 MW ed è evidente a tutti che il raggiungimento di questo obiettivo in tempi rapidi è impossibile ma non a causa della complessità tecnologica ma soprattutto a causa delle discussioni che avremo nell’essere convinti che quella sia la soluzione più condivisa. Il rischio dell’immobilismo è quindi dietro l’angolo.

La domanda che ci dovremmo fare è se esiste un modo più condiviso ma rapido e altrettanto efficace per perseguire il risultato.

Facciamo un breve analisi di quello che abbiamo fatto in Italia dal 2009 a oggi. I rapporti 2023 del Gestore dei servizi energetici e di Terna ci informano che abbiamo un totale installato di 1,6 milioni di impianti al di sotto delle cabine secondarie sui tetti degli edifici che condividono da sempre circa 14,6 TWh di energia elettrica nelle 430mila comunità energetiche “di fatto”, una quantità di poco superiore a quanto produce un reattore nucleare da 1.800 MW e rappresentano solo il 4,4% degli utenti potenziali. E poi 15mila impianti fotovoltaici in media tensione nelle aree industriali che producono 9,5 TWh e che rappresentano il 15% degli utenti potenziali; 1.500 grandi impianti fotovoltaici a terra che producono 6,5 TWh; 5.928 pale eoliche collegate in media/alta tensione che producono 23,4 TWh; 2.985 impianti a biomasse che producono 15,1 TWh; a questi aggiungiamo l’idroelettrico con i suoi grandi invasi che produce 38,2 TWh e infine il geotermico con i suoi 5,4 TWh.

Questo elenco ci dà due buone notizie: la prima è che in 14 anni abbiamo messo insieme la bellezza di quasi 10 reattori nucleari da rinnovabili dei 26 che ci servirebbero di cui sette nuovi di zecca (siamo più veloci di qualsiasi fantomatico programma nucleare); la seconda è che ne abbiamo fatti due coinvolgendo soltanto il 4,7% degli utenti in bassa tensione e il 15% delle imprese in media tensione.

Questi ultimi due li abbiamo fatti in buona parte tra il 2010 e il 2012, poi ci siamo dimenticati di continuare fino al 2021 quando abbiamo ripreso a installare. Vogliamo prendere atto che ci abbiamo messo solo quattro o cinque anni per cui la velocità con cui abbiamo fatto 1,6 milioni di piccoli impianti è spaventosamente rapida ma, soprattutto, l’abbiamo realizzata all’insaputa di molti che stanno leggendo questo articolo e senza far litigare Armaroli, Pileri e Setti?

Integrando questo potenziale con la necessità di una riforma del mercato elettrico che valorizzi l’energia condivisa come bene comune, possiamo costruire un futuro energetico che sia verde, equo e inclusivo.

Coloro che fanno i grandi impianti che fine faranno? A loro dico, scendete di una scala e cominciate a fare gli impianti sotto i 200 kW che siano però utili per le comunità con la finalità di rendere l’energia un bene comune perché questo sarà più veloce e più remunerativo per tutti.

E le grandi multiutilities che guadagnano dalla vendita del kWh che fine faranno? Non vi preoccupate perché il vostro ruolo non sarà modificato; qualcuno che contabilizzi l’energia che condividiamo ci vuole sempre e quindi ci fornirete comunque quel servizio senza però speculare sul bene comune.

Le comunità energetiche rinnovabili, di cui siamo già di fatto parte integrante per natura, rappresentano il modello ideale per realizzare rapidamente questa visione, promuovendo la partecipazione attiva delle comunità locali e garantendo una transizione giusta e l’energia accessibile a tutti come ci ricorda il 17esimo obiettivo dell’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile.

Leonardo Setti è ricercatore del dipartimento di Chimica industriale e docente di Energie rinnovabili, sistemi energetici e politiche energetiche all’Università di Bologna. È presidente dell’associazione Centro per le comunità solari

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