Ambiente
Come l’acqua diventa una merce. Le mani del monopolio privato
L’acqua è una merce. Potete guardarla scorrere mentre siete in fila allo sportello di una banca, nei cantieri delle grandi imprese di costruzioni o tra i titoli in portafoglio di qualche fondo d’investimento. L’elenco di chi ha “scommesso” sulla privatizzazione…
L’acqua è una merce. Potete guardarla scorrere mentre siete in fila allo sportello di una banca, nei cantieri delle grandi imprese di costruzioni o tra i titoli in portafoglio di qualche fondo d’investimento. L’elenco di chi ha “scommesso” sulla privatizzazione del servizio idrico integrato nel nostro Paese è lungo. Se ci limitiamo a leggere i nomi dei maggiori azionisti della società quotate in Borsa, le più grandi e quelle destinate a “mangiarsi” tutto il mercato, dentro ci troviamo Fondazione Cassa di risparmio di Trieste, Fondazione Cassa di risparmio di Torino (gruppo Unicredit), Banca Imi, Equiter spa, Intesa Sanpaolo, Sud Polo Vita, Banca dell’Adriatico, Banco di Napoli, Cassa di risparmio di Firenze, Eurizon Vita (gruppo Intesa Sanpaolo), Gdf-Suez, Veolia Environment, Impregilo, Francesco Gaetano Caltagirone, Carlo Tassara, Pictet Asset Management. Eppure, sono ancora in molti a definire lo stato attuale del servizio idrico in Italia un “monopolio pubblico”. Lo descrive così, ad esempio, il ministro per le Politiche comunitarie Andrea Ronchi, che in un intervento su Milano Finanza, a metà febbraio, scrive che “è inaccettabile sostenere che l’acqua debba essere gestita da un monopolio pubblico”, a suo avviso una “fonte inesauribile di sprechi”. Non ricorda, il ministro, che lo stesso quotidiano il giorno dopo l’approvazione del decreto che porta il suo nome titolò: “L’acqua liberalizzata sale a Piazza Affari. Scatena polemiche ma fa volare i titoli idrici”. Meglio un monopolio privato, quindi, cui prepara il Paese proprio l’articolo 15 del decreto “Ronchi” (convertito in legge, la numero 166/09, nel novembre scorso), contro cui si stanno mobilitando in tutto il Paese i comitati del Forum italiano dei movimenti per l’acqua (sotto). E mentre Ronchi e Raffaele Fitto, il ministro per gli Affari regionali, rassicurano gli italiani sulla bontà della riforma dei servizi pubblici locali, chi non ha paura di pronunciare la frase “è in corso la privatizzazione dell’acqua” si è dato appuntamento a Milano, dove all’annuale seminario dell’Osservatorio sulle alleanze e le strategie nel mercato pan-europeo delle utilities si è discusso di “Utility del futuro”. Davanti a una platea di manager delle ex municipalizzate, Andrea Gilardoni, presidente dell’Osservatorio e docente all’Università Bocconi ha delineato il quadro di un “big bang”, immaginando la creazione di una maxi-utility che potrebbe nascere dall’“aggregazione in un unico soggetto delle attuali ex municipalizzate quotate in Borsa”. Il big bang avrebbe una capitalizzazione di 9,3 miliardi di euro, 18,3 miliardi di euro di fatturato e gestirebbe 140mila chilometri di reti idriche (oltre a 57mila di reti elettriche e 39mila per la distribuzione del gas). Gli enti locali, che oggi controllano almeno il 51% delle azioni delle società quotata in Borsa, dovrebbero cedere quote di capitale (il decreto “Ronchi” impone di scendere al 40% entro giugno 2013 e al 30 entro dicembre 2015) e -assicura Tomaso Tommasi di Vigano, presidente di Hera- sono pronti a farlo. Sulle azioni che si liberano, si allunga l’ombra delle grandi banche. Non a caso, è stato invitato ad intervenire Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit, per assicurare alla platea che “le fondazioni bancarie possono essere molto interessate a diventare investitori istituzionali”, specie se si andasse a “scorporare le reti, per renderle soggetti economici per conto loro”. L’obiettivo: “Liberare risorse per investimenti per il futuro ‘campione dei campioni’”. Anche se cauti sull’idea del big bang, i presidenti di Acea, Hera e Iride (tre tra le principali aziende quotate) assicurano che il decreto Ronchi è una buona occasione per i Comuni, che ora hanno una scusa e possono dire ai cittadini “vendiamo perché siamo costretti”, messi in ginocchio dal Patto di stabilità, combinato ai tagli ai trasferimenti dallo Stato centrale. Le aziende dei servizi pubblici locali sono gli ultimi gioielli di famiglia. Del “big bang”, secondo l’idea dell’Osservatorio, farebbe parte anche l’Acquedotto pugliese. Oggi è una spa pubblica, al pari di altri importanti gestori del servizio idrico integrato, come Metropolitana Milanese (Milano) e Amiacque (Provincia di Milano). Due interlocutori che non sono invitati al tavolo di chi conta. Forse perché la Lombardia il proprio “campione” quotato in Borsa già ce l’ha, è A2a.