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Come è vista la guerra a Gaza dall’America Latina
Dai fatti del 7 ottobre i Paesi della regione hanno assunto posizioni diverse verso Israele, dall’interruzione delle relazioni diplomatiche al sostegno incondizionato. A incidere sono più fattori che vanno dalla presenza di discendenti ebrei o palestinesi alla storia personale dei leader politici, fino alle relazioni commerciali verso gli Stati Uniti e il mondo arabo
L’America Latina è divisa su Gaza. Luis Inàzio Lula da Silva dal Brasile ha accusato Israele di genocidio. Colombia, Bolivia e Belize hanno interrotto le relazioni diplomatiche con Tel Aviv mentre il Cile e l’Honduras hanno richiamato i loro ambasciatori dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas. Intanto, negli ultimi giorni, gruppi di studenti si sono accampati nei cortili delle Università del Messico, emulando i loro colleghi negli Stati Uniti.
“Si possono differenziare tre tipi di posizioni tra i governi: un sostegno totale al diritto di Israele all’autodifesa (adottato da Paraguay, Uruguay, Argentina, Costa Rica, Honduras, Guatemala e Panama, ndr); un sostegno totale a Hamas, basato sulla condanna della politica israeliana degli ultimi anni verso i palestinesi (posizione adottata da Bolivia, Cuba, Venezuela e Nicaragua, che condividono anche posizioni antistatunitensi, ndr). E infine una ricerca di equidistanza”, spiega ad Altreconomia Marta Tawil, scienziata politica sirio-messicana, docente presso il Colegio de México.
“Tutti i governi nel prendere posizione sul conflitto evocano il rispetto dei diritti umani, ma poi nessun organismo regionale -come il Mercosur, Can, Celac o Sica- è riuscito ad adottare una posizione sulla vicenda, nemmeno sui principi del diritto internazionale. L’ennesima prova della debolezza del regionalismo latino-americano”, continua Tawil. Un’eccezione che conferma quindi che è più preciso parlare di posizione dei Paesi latino-americani, piuttosto che dell’America Latina como soggetto politico.
La linea di frattura destra-sinistra in America Latina non coincide con quella tra le posizioni sul conflitto israelo-palestinese. “Oggi non ci sono posizioni omogenee né tra i progressisti né tra i conservatori. E non è una novità. La sinistra latino-americana è sempre stata plurale e ha evitato di politicizzare la sua relazione con Israele, mentre sono stati governi di destra, Piñera in Cile, Pérez Molina in Guatemala, Lobo in Honduras, che hanno riconosciuto lo Stato palestinese”, afferma Tawil.
Un altro fattore da esaminare è la biografia dei presidenti. Un caso emblematico è quello di Gustavo Petro: “il presidente colombiano è un ex-guerrigliero, conosce bene il sostegno di Israele ai gruppi paramilitari di destra nel suo Paese. E anche per il Cile le storie personali contano: Gabriel Boric ha visitato la Cisgiordania e visto da vicino l’occupazione. Tanto il Cile come la Colombia hanno condannato la reazione d’Israele. Ma se poi pensiamo al Salvador, il presidente Nayib Bukele, seppur di origini palestinesi, difende il diritto di Israele a una difesa senza limiti, paragona Hamas alle maras, i gruppi criminali che infestano il Paese centroamericano, e usa questo argomento per giustificare la sua politica di mano dura. È un esempio che mostra che l’origine non conta”, ragiona Tawil.
C’è un fattore che rileva più di altri, soprattutto in alcuni Stati: l’America Latina ospita mezzo milione di discendenti di ebrei e altrettanti di palestinesi. Sono arrivati intorno alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento. Una massiccia diaspora palestinese si trova in Honduras, 120mila persone, ma la più grande è in Cile, con 350mila persone. A Santiago del Cile esiste una squadra di calcio, il Club Palestino, la cui maglietta riprende i motivi della bandiera palestinese, discendenti dei palestinesi oggi sono esponenti di spicco della classe imprenditoriale e politica, perlopiù cristiani della classe media alta.
“L’Argentina invece ospita la più grande diaspora ebraica della regione, composta da 250mila persone. È una comunità organizzata e attiva sul piano mediatico per sostenere il governo israeliano. L’ex presidente di centrosinistra, il peronista Alberto Fernández, è stato uno dei primi latino-americani a mostrare sostegno incondizionato a Israele. Tra le vittime degli attentati di Hamas del 7 ottobre ci sono anche 16 cittadini argentini e l’evento ha riportato alla memoria i due attentati degli anni Novanta a Buenos Aires contro la diaspora ebraica”, dice Tawil.
Il fattore più importante nel formare la posizione latino-americana su Gaza, però, è senza dubbio l’influenza degli Stati Uniti. “Per alcuni Paesi, come il Messico, la posizione degli Usa è cruciale”, fa notare Tawil. Funziona anche al contrario: assumere una posizione filopalestinese può essere un riflesso di un forte antiamericanismo, come è avvenuto nella reticenza di alcuni governi latino-americani nel condannare l’invasione russa in Ucraina. Ma per molti governi della regione, mantenere buone relazioni con Israele è un modo per curare quelle con gli Stati Uniti.
E anche per fare affari. Da Israele molti Paesi latino-americani comprano tecnologia per l’agricoltura e la sicurezza. Un’impresa edile messicana, la Cemex, ha costruito alcuni dei tratti del muro che separa Israele e Palestina e tre delle sue fabbriche sorgono dentro le colonie illegali israeliane in Cisgiordania. “L’impressione, almeno qui in Messico, è che non valga la pena mettere a rischio la cooperazione economica con Israele per ragioni politiche”, dice Tawil.
A rendere più complesso il puzzle latino-americano su Gaza esiste un altro aspetto: i fedeli evangelici, in particolare neopentecostali e la loro incessante crescita. In Brasile il 2020-2030 è stato definito il decennio evangelico, anni durante i quali si verificherà il sorpasso di questi gruppi sui cattolici, storicamente maggioranza. Oggi, l’estrema destra latino-americana, in alleanza con i gruppi fondamentalisti neopentecostali, ha sposato le ragioni del governo israeliano e cerca di appropriarsi della bandiera con la stella di David, un simbolo che sventola nei cortei bolsonaristi a San Paolo e in quelli pro-Milei in Argentina. “Vediamo come questi gruppi spingano i governi a sostenere la causa israeliana, in Guatemala, dove gli evangelici sono già la maggioranza della popolazione”, spiega Tawil.
In molti Paesi centroamericani, le relazioni con Israele sono forti fin dagli Settanta. Honduras, El Salvador e Costa Rica, già in quel decennio, spostarono le proprie ambasciate da Tel Aviv a Gerusalemme, seguiti di recente dal Guatemala. Oggi lo spostamento delle ambasciate a Gerusalemme è diventata una vera e propria causa dell’estrema destra globale, alla quale ha aderito di recente anche il presidente argentino Milei. L’Argentina, inoltre, è stato l’unico Paese latino-americano a votare contro il riconoscimento della Stato palestinese all’Onu lo scorso 10 maggio, mentre il Paraguay si è astenuto.
Non solo Gaza: le relazioni con il mondo arabo dividono l’America Latina. Di recente il presidente argentino Milei ha accusato il Cile di ospitare cellule terroriste di Hezbollah, la milizia libanese sciita sostenuta dall’Iran. La presenza di Hezbollah in America Latina è un fantasma che appare ciclicamente sui media, in particolare nel triangolo tra tre città: l’argentina Puerto Iguazú, Foz do Iguaçu in Brasile e la paraguaiana Ciudad del Este. La Triple Frontera è un’area franca di traffici di ogni tipo, nella quale si sospetta che Hezbollah sia attivamente radicata. Mentre Argentina e Paraguay hanno riconosciuto Hezbollah come organizzazione terrorista, “il Brasile -che ha relazioni economiche forti con l’Iran- è l’unico Paese della Triple frontera che non la considera tale”, spiega Tawil, che ricorda le aggressioni contro la popolazione araba residente nella zona, circa 30mila persone principalmente libanesi. Bolivia, Cuba, Venezuela e Nicaragua hanno una relazione politica stabile con l’Iran, basata soprattutto su questioni legate alla sicurezza, scambio di armi, formazione militare. E tutti i Paesi latino-americani hanno, invece, ottime relazioni con le monarchie del Golfo. Anzi, a inizio 2024, il Brics (il gruppo composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), si è allargato a cinque nuovi membri, tra loro Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto e Iran.
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