Ambiente / Opinioni
Quei tagli d’acqua che disegnano l’Italia
Il Vacchelli è parte dei 200mila chilometri di capillari che portano il 63% dell’acqua delle nostre aziende agricole. Un patrimonio da raccontare. La rubrica di Paolo Pileri
In questo presente di velocità voglio parlare di un lento canale irriguo: il Pietro Vacchelli, dal nome del senatore che lo ideò. Lungo solo 34 chilometri, taglia la pianura cremasca senza squarciarla come farebbe un’autostrada. Da 130 anni prende le acque dall’Adda, scavalca il Serio e dà quel che resta all’Oglio dopo avere irrigato tanta terra che ci dà il cibo che mangiamo a cena. Ma a tavola non pensiamo mai a quel sottile filo d’acqua a meno di mezz’ora da Milano.
Per noi non esiste e quindi non è strategico come invece dicono sia l’assurda autostrada Cremona-Mantova. E invece lui esiste ed è stato costruito metro dopo metro dai nostri trisnonni: pala, piccone, carriola, sudore, fatica, dure giornate di lavoro. Fu un progetto audace per l’epoca, ma gentile e rispettoso di un paesaggio agrario che nessuno allora avrebbe offeso visto che tutti se ne sentivano parte. Un canale di acque fluenti senza bisogno di energia, ma solo pendenza: ardua impresa nella pianura più piana d’Italia. Una vera opera d’arte curata in ogni dettaglio, con 110 ponti uno diverso dall’altro: alcuni stradali, altri per farsi scavalcare da altre acque dirette ad altri campi: intrecci magici tra ingegneria e architettura.
Il Vacchelli fa parte di quei 200.000 chilometri di capillari irrigui silenziosi (Anbi) che portano il 63% di tutta l’acqua usata dalle nostre aziende agricole (Istat), che altrimenti non sarebbero così produttive. Un’estensione trenta volte più lunga della rete autostradale italiana. Senza quei fili lenti noi non mangeremmo come mangiamo.
Inutile dirvi che i canali non se la passano bene. Pochi soldi per la manutenzione e molte minacce che incombono sulle loro sponde anche a causa di un’urbanistica locale che propone le “peggio cose” di cemento là vicino. Piani che li tradiscono e gli voltano le spalle. Non sappiamo più che farcene di un canale anche perché, passeggiando o pedalando sempre meno lungo quelle sponde agricole, non abbiamo a mente neppure una loro immagine. Anche i nonni che potevano raccontarceli, se ne sono andati. E quando qualcosa, anche se piccolo, esce dall’orizzonte della nostra conoscenza, lentamente muore: le cose non si salvano da sole e uno non lotta per salvare ciò che non conosce.
La conoscenza rimane il miglior antidoto al degrado. Il disfacimento culturale è la vera fragilità che uccide il paesaggio italiano e le aree interne del nostro Paese da cui fuggono i giovani. La scorza dei politici, come dice Francesco Guccini, potremmo misurarla con la capacità di fare di un piccolo canale irriguo un progetto politico per tutti; di saperlo raccontare come parte incancellabile del futuro e patrimonio culturale di cui non vergognarsi ma inorgoglirsi. Invece quel canale è più facile dimenticarlo.
110. Sono i bei ponti in mattone lungo il Vacchelli che i nostri sguardi hanno smarrito. Quando avremo occhi per salvare anche un piccolo storico canale irriguo, avremo ritrovato lo spirito giusto per curare la bellezza di questo Paese e farlo ripartire.
Insisto: è lavoro culturale, inteso alla Luciano Bianciardi, ciò di cui abbiamo più urgenza, per ridare vista ai nostri sguardi miopi e convinta intenzione di cura alle nostre azioni sul territorio. E così lungo il Vacchelli ci ho portato i miei studenti di architettura. Da ignari del canale quali erano, dopo soli tre mesi ne hanno capito forza e significato. I loro piccoli progetti di urbanistica hanno immaginato per quella linea di acqua e terra splendide forme di riscatto al posto di offensive proposte urbanistiche. Oggi loro sanno che cosa è un canale e sono certo che da progettisti quali diverranno non saranno indifferenti a tutti quegli antichi tagli d’acqua che non feriscono la terra, ma le danno da bere ancora oggi.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)
© riproduzione riservata