Esteri / Reportage
Chi aiuta i migranti bloccati in Bosnia, lungo la rotta dell’Europa
Viaggio nella cittadina di Velika Kladuša, a pochi chilometri dalla frontiera croata, tra i volontari che assistono oltre 500 profughi accampati, in marcia da mesi. Sono respinti e vessati dalla polizia, ma la solidarietà non manca
“Tra febbraio e fine giugno, abbiamo preparato 43.000 pasti gratuiti per i migranti”, dice con un certo orgoglio Harum, uno dei volontari di “SOS Team Kladuša”.Questo gruppo di volontari, in maggioranza bosniaci, opera a Velika Kladuša, città principale della regione bosniaca più a Nord del Paese, a poche centinaia di metri dal confine croato. Oggi, la Bosnia, rappresenta la tappa finale della rotta balcanica che, partendo dalla Grecia, viene percorsa ogni anno da migliaia di migranti per raggiungere l’Europa occidentale.
Pakistani, siriani, iracheni, afghani e nord africani, fino a gennaio del 2018 percorrevano questa rotta passando attraverso la Bulgaria e la Serbia, tentando poi di superare il confine con l’Ungheria, e così raggiungere Germania o Austria. Tuttavia, il governo ungherese guidato dal leader xenofobo a ultranazionalista Viktor Orbán, è riuscito a sigillare i propri confini con barriere di filo spinato lungo tutta la frontiera e l’uso sistematico di torture e violenze inflitte dalla polizia ungherese contro i migranti. Violenze più volte denunciate anche dall’Unhcr e Amnesty International. Così, da febbraio del 2018, questa rotta è mutata, spostandosi più a Sud, attraverso Albania, Montenegro e Bosnia. In effetti, i numeri forniti dal ministero dell’Interno bosniaco sono chiarissimi: in tutto il 2017 gli arrivi registrati erano stati 700, mentre nei primi sei mesi del 2018 sono stati registrati più di 6mila migranti.
Per questo motivo, il 7 giugno, Chrīstos Styliandīs, commissario europeo per gli aiuti umanitari, in una conferenza stampa, ha dichiarato che la Commissione europea avrebbe supportato la Bosnia con uno stanziamento di 1,5 milioni di euro per l’accoglienza dei migranti. “Si fermano qui a Velika Kladuša perché la polizia croata respinge molti migranti al confine. Vogliono arrivare in Italia o in Germania. Ma per riuscirci devono attraversare prima la Croazia e poi la Slovenia. Molti vengono rispediti qui dalle autorità di quei due Paesi. È un viaggio difficile” spiega Harum. Kladuša è un po’ come un collo di bottiglia che si stringe sempre più. Il risultato è un incremento costante di migranti bloccati a Velika, ed una situazione da gestire sempre più complessa.
“SOS Team Kladuša” è oggi una Ong “ufficiale”. “All’inizio eravamo solo un gruppo informale, persone del posto di ogni età che per aiutare le centinaia di persone bloccate qui si erano unite in un gruppo. Poi abbiamo deciso di diventare un’organizzazione vera e propria, così da poter ricevere donazioni, anche dall’estero” ci spiega Harum mentre sfoglia il quadernino con tutti i numeri dei pasti forniti fino ad oggi.
La cucina del team di volontari bosniaci si trova dentro la cittadina, a meno di un chilometro dal campo dove risiedono la maggior parte dei migranti bloccati a Velika. Un semplice spiazzo fra i campi di grano fornito dal governo locale dove sono state sistemate tende, costruiti rudimentali lavandini, qualche doccia e nient’altro. “Oltre a preparare il cibo, coordiniamo gli interventi al campo, dove forse, ad oggi, risiedono 500 persone” ci dice Harum mentre beve un bicchierino di liquore alle visciole. Sono le 9.30 di mattina, c’è bisogno di una forte carica per reggere la preparazione e distribuzione di 200 pasti al giorno. “Portiamo vestiti, montiamo le tende quando ci sono nuovi arrivi e abbiamo portato l’elettricità al campo grazie a un generatore”.
“Si fermano qui perché la polizia croata respinge molti migranti al confine. Vogliono arrivare in Italia o in Germania” – Harum, volontario
Quel pomeriggio andiamo a vedere la situazione al campo. Due volontari del team hanno appena consegnato centinaia di indumenti. Lì mettono a terra, sopra un telone di plastica, permettendo alle persone di scegliersi quelli che più gli piacciono. Una bambina salta sul mucchio di indumenti e inizia a selezionare le camicette che preferisce; poi ne prende altre e per gioco le tira contro la sorella che la redarguisce bonariamente. Accanto ai vestiti passa una macchina di una volontaria bosniaca che si dirige sicura verso una famiglia di curdi. È lì per consegnare loro degli indumenti. Non parla inglese, e i curdi ovviamente non parlano bosniaco, ma si sorridono, e così se ne ritorna a casa, sta ormai tramontando.
Il campo è lungo cinquecento metri e largo un centinaio. Un gruppo di pakistani gioca a pallavolo, senza rete, con le ultime luci del giorno. Molti di loro hanno tentato di superare il confine: “Io ho tentato 7 volte. Ma niente, mi hanno sempre beccato e rimandato qui”, mi confida un ragazzo pakistano prima di riprendere a giocare con la palla. Poi iniziamo a scoprire qualche cosa di ben più grave di un semplice respingimento illegale da parte delle autorità di confine croate. “Superato il confine, dopo pochi chilometri, mentre camminavamo ormai già in territorio croato, la polizia ci ha scovati. Ci hanno rubato i cellulari che avevano un certo valore, mentre ci hanno distrutto quelli di poco conto” racconta Nadim, un ragazzo kashmiro in fuga da un’oppressione contro il suo popolo che va avanti dal 1948. “I cellulari che non gli piacevano li buttavano a terra e ci passavano sopra con la jeep, e poi ce li riconsegnavano. Dopo di che ci facevano correre e ci picchiavano con i manganelli da ogni parte. Finito, ci hanno rispediti in Bosnia” conclude Nadim, addolorato e indignato allo stesso tempo. La sua testimonianza non è un caso isolato. La maggior parte dei migranti che ha tentato di superare il confine ammette di essere stata picchiata dalle autorità croate, prima di essere rispedita in Bosnia.
Tuttavia, uno Stato non è fatto solo di politici o organi di polizia. La solidarietà umana è spesso slegata dalle contingenze politiche, o dal partito che in quel momento detiene il potere. Infatti, lo stesso Nadim ci riferisce che prima di essere trovati dalla polizia, lui ed il suo gruppo di kashmiri, una sera aveva trovato rifugio nella casa di una signora croata. “Eravamo stanchissimi, disidratati ed affamati e ci siamo così fermati nei pressi di una casa in mezzo alla campagna a pochi chilometri dal confine sloveno. Abbiamo bussato. La signora ci ha fatto entrare, ci ha offerto cibo, acqua, un letto. Ci è andata a fare la spesa al mercato, poiché noi non potevamo uscire. Poi, la mattina dopo, ha messo la sveglia alle 6 di mattina, ci ha preparato il caffè e abbiamo ripreso il cammino verso la Slovenia”, racconta Nadim, tutto sommato felice del gesto della signora croata.
Nella area di Velika Kladuša, la guerra bosniaca (1992-1995) non è stata particolarmente cruenta. Tuttavia, il ricordo di quella violenza su base etnica è ancora forte negli occhi e nei cuori di croati e bosniaci. Gli abitanti di Velika sono in stragrande maggioranza musulmani. “Non so se la loro religione li porta ad essere più solidali nei nostri confronti ma ogni volta che ci incontrano ci salutano esclamando salam aleikum (la pace sia con voi). Anche se non sono religioso, lo apprezzo molto. Mi fa sentire a casa”, racconta una sera, intorno al fuoco, Adan, un curdo iraniano di 37 anni.
Nella area di Velika Kladuša, la guerra bosniaca (1992-1995) non è stata particolarmente cruenta. Tuttavia, il ricordo di quella violenza su base etnica è ancora forte
Quando è sera le temperature si abbassano. Non fa freddo, ma un fuoco è più che gradevole. Adan deve raggiungere la famiglia che lo aspetta in Germania. Poi, mentre siamo tutti assorti e ipnotizzati dalle fiamme, dopo aver ascoltato l’ennesima testimonianza di violenza subìta, Adan mi guarda e dice: “Il popolo bosniaco è il popolo più amichevole e accogliente che io abbia mai conosciuto”. Poco prima, un giovane ragazzo siriano, aveva detto la stessa cosa mentre abbracciava un volontario bosniaco. “La gente qui ci vuole bene. Ed anche la polizia che non è come quella croata”, aveva detto il giovane siriano. Finiamo la giornata a bere una cola in un bar vicino alla cucina di “SOS Team Kladuša” con un ragazzo siriano conosciuto al campo. “In Siria facevo l’addestratore di cavalli” racconta mentre ci mostra su Facebook le foto di quando cavalcava in un maneggio di Damasco. “In Italia vorrei fare lo stesso lavoro. Ma so che non sarà facile, farò qualunque cosa all’inizio”. Verso mezzanotte la signora che era rimasta a chiudere il locale, ormai vuoto, a un certo punto ci dice qualche cosa in bosniaco. Noi ovviamente non capiamo. Dopo poco arriva con un sacco della spazzatura pieno di vestiti e lo consegna al ragazzo siriano. Poi mi guarda bene, prende un altro sacco, e divide i vestiti in due. In bosniaco ci fa capire che un sacco era per me ed uno per l’amico siriano. Nessuno le aveva chiesto niente, ma d’altronde la solidarietà è un gesto spontaneo.
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