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Binario a senso unico

Dal 31 marzo preparatevi a dire addio ad alcune tratte ferroviarie: i treni dei pendolari non sono una priorità per nessuno. Ecco come le logiche di mercato stanno affossando il trasporto locale su rotaia L’ultimatum dell’amministratore delegato delle Ferrovie dello…

Dal 31 marzo preparatevi a dire addio ad alcune tratte ferroviarie: i treni dei pendolari non sono una priorità per nessuno. Ecco come le logiche di mercato stanno affossando il trasporto locale su rotaia


L’ultimatum dell’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato (Fs), Mauro Moretti, è scritto, anche se in piccolo, nei cartelloni degli orari ferroviari esposti in tutte le stazioni: “L’offerta non subirà nessuna variazione, almeno fino al 31 marzo 2008”. Quel giorno non cambieranno solo gli orari: potrebbero sparire treni e tratte, magari proprio quella che vi porta al lavoro, e dal lavoro a casa.

Il motivo è semplice: mancano i soldi per onorare il contratto di servizio tra Trenitalia, l’azienda del gruppo Fs che “fa correre i treni” (vedi box a pagina 12) e le Regioni. Forse ancora non lo sapete, ma dal 2000, con l’entrata in vigore della riforma Bassanini, ogni Regione è responsabile del trasporto ferroviario del proprio territorio. Ma a pagare è sempre lo Stato, che trasferisce alle Regioni i soldi che servono per acquistare da Trenitalia -un’azienda controllata al 100% dal ministero del Tesoro- il servizio di trasporto ferroviario locale. Sono le corse dei pendolari su cui viaggiano, ogni giorno, 2 milioni di persone. Solo che adesso i soldi mancano. Il budget assegnato dallo Stato al servizio regionale, per il 2008, è di 1.174 milioni di euro, il più basso dal 2000 e il 21% in meno rispetto all’anno scorso. È per questo che Trenitalia, da aprile, probabilmente farà correre meno treni: sono a rischio un quarto delle corse “regionali”, scelte tra quelle che viaggiano fuori dagli orari di punta dei pendolari e nei festivi. C’è di più: una decina di linee minori, da Nord a Sud, potrebbero proprio sparire (vedi box nella pagina a fianco). Oggi i fondi pubblici coprono per legge al massimo il 65% dei costi sostenuti dall’azienda per i treni locali, e sono considerati il “corrispettivo” -guai a chiamarlo “sussidio”- che ripaga un servizio pubblico (il trasporto pendolare, appunto). Il resto dovrebbe essere coperto dalla vendita di biglietti e abbonamenti. Il “contratto di servizio” tra Trenitalia e ogni Regione che regola questo servizio stabilisce innanzitutto le corse che devono essere realizzate in un anno: sono misurate in trenikm, espressione che indica la lunghezza in chilometri di ogni corsa moltiplicata per il numero di giorni in cui viene fatta in un anno. Ma l’accordo stabilisce anche altro: a quanti passeggeri dev’essere garantito un posto a sedere, gli standard di qualità del servizio e le eventuali penali se l’azienda non li rispetta. Nel 2006 le Regioni hanno pagato a Trenitalia, in media, un “corrispettivo” di 7,70 euro/trenokm, ovvero quasi 7 centesimi di euro a chilometro per ogni passeggero (vedi p. 13).

A queste condizioni, dice Trenitalia, è impensabile un allargamento dell’offerta.

La realtà è che le ferrovie regionali non sono una priorità per nessuno: il Governo continua a investire nella gomma (300 milioni di euro nella Finanziaria 2008 il sostegno agli autotrasportatori) e a costruire nuove infrastrutture per le auto. Nonostante le pressioni di Fs (e le minacce di tagliare le corse) le risorse necessarie

a “salvare” il trasporto regionale e a comprare mille nuovi convogli per i pendolari, una promessa dell’estate 2007, non sono spuntate nemmeno tra le pieghe del decreto “milleproroghe”, successivo alla Finanziaria. Sono tornati, invece, gli ecoincentivi per comprare auto meno inquinanti, che nel 2007 sono “costati” alle casse dello Stato quasi 300 milioni di euro in mancate entrate. Da parte sua, il gruppo Fs punta a sviluppare le linee Alta velocità (Av), su cui far correre i treni che si ripagano da soli, senza bisogno di sovvenzioni dello Stato. Nemmeno le Regioni scommettono sulla rotaia: per fare più treni potrebbero investire fondi propri, ma nel 2006-7 tutte hanno dedicato al trasporto locale meno dell’1% del bilancio regionale. La Lombardia, che

è la “regina” dei pendolari, arriva allo 0,62%; “cenerentole” sono Calabria, Molise e Piemonte, che non hanno stanziato fondi aggiuntivi (vedi la tabella a p. 13).

Far correre meno treni sulle ferrovie locali, però, non è una scelta indolore: sono “regionali” sette treni su dieci (solo 9 su 100, invece, quelli che “battono bandiera” Eurostar o Alta velocità). 88 passeggeri ogni 100, oggi, salgono su treni locali: il “traffico regionale” ha coinvolto 465 milioni di passeggeri nel 2006, contro

74 milioni circa della “media e lunga percorrenza”.

Altri 7,7 milioni di pendolari, oltre ai 2 che già lo fanno, sarebbero disposti a salire sui treni. Se ci fossero. È gente che oggi usa l’auto. Nessuno però tiene conto di questi numeri: un abbonato in più, ogni pendolare “conquistato” all’auto e alla strada, è un peso per le casse dello Stato e di Trenitalia, che preferisce offrire il proprio servizio a chi, anche solo una volta al mese, siede in prima classe sull’Eurostar Milano-Roma. Paga, sola andata, 85 euro, tre in più di quanto spende per l’abbonamento mensile chi viaggia ogni giorno per 148 chilometri tra Torino e Milano in regionale.

Intanto, Trenitalia è diventata schizofrenica: l’azienda ha una divisione “trasporto regionale” e una  “lunga percorrenza” che, secondo il management, si fanno concorrenza tra loro. Su determinate tratte, cioè, il trasporto regionale ruba passeggeri alla media e lunga percorrenza. E va cancellato: alla fine del 2005, è iniziata una vera guerra di mercato. I vertici di Trenitalia hanno deciso di rendere più attraenti i treni Intercity togliendo appeal ai treni minori. Le prime vittime, in questo senso, sono stati alcuni treni interregionali (Ir), come il Milano-Ventimiglia, spezzato a Genova, e il Milano-Ancona. Una scelta che provoca disagi ai passeggeri (le coincidenze non esistono più) e costi aggiuntivi (vedi l’articolo a pagina 12).

Spostare utenti dai servizi “sovvenzionati” a quelli di mercato è una ricetta per assestare il bilancio del gruppo Fs, che nel 2006 ha chiuso in profondo rosso, meno 1.989,4 milioni di euro (nel 2007, invece, il disavanzo dovrebbe assestarsi sui 450 milioni di euro). L’azienda risponde così alla sfida dei concorrenti privati che si preparano a offrire treni sulle linee ad Alta velocità. Dal 2011 arriverà la flotta della Ntv (Nuovo treno veloce), l’azienda creata nel gennaio 2007 da Luca Cordero di Montezemolo, presidente di Fiat e Confindustria, e Diego Della Valle, presidente e ad di Tod’s, che ha ordinato 25 treni ad alta velocità all’Alstom, investendo 1,5 miliardi di euro (e all’inizio del 2008 Intesa Sanpaolo ha acquistato il 20% delle azioni della società). A quel punto Trenitalia non vorrà garantire un servizio regionale costantemente in perdita. Se il Governo non interviene, l’azienda pubblica non può che ridurre i costi, cioè le corse, sulle ferrovie minori. Questo è il messaggio lanciato da Moretti al Governo: che ha avuto tempo di capire, ma non lo ha fatto.



La schizofrenia del ferroviere

Le Ferrovie dello Stato passano i soldi da una tasca all’altra: ogni relazione tra le due aziende riunite nella holding Fs -Trenitalia e Rete ferroviaria italiana (Rfi), entrambe controllate al 100% dal ministero

del Tesoro- comporta uno scambio di denaro.

Trenitalia (lo Stato) acquista da Rfi (lo Stato) il diritto a far passare un treno sui binari (si chiama “traccia”). Ogni corsa è divisa in tratte normali e “nodi” e il conto varia anche in base all’ora di percorrenza (le ore di punta costano di più). Si paga per entrare nei “nodi”, come l’area di Milano o Roma, e poi, un tot a minuto, il tempo che il treno ci resta dentro. Le corse che vogliono fermarsi nelle stazioni principali pagano un supplemento: Milano Centrale costa 4 volte di più che Milano Rogoredo. Lo stesso, a Firenze, vale tra le stazioni Santa Maria Novella e Campo di Marte. Non è un caso se Rogoredo e Campo di Marte erano le fermate dell’Eurostar Milano-Roma low cost, il “Treno ok”, che prima di essere cancellato non arrivava a Termini ma alla stazione Tiburtina.

Quelle calcolate sono tutte misure convenzionali, approssimazioni del costo fisico di gestione dell’infrastruttura, ma servono a Mauro Moretti, il ferroviere diventato amministratore delegato del gruppo Fs nel 2006, per portare l’azienda al pareggio di bilancio nel 2009 e in Borsa nel 2010.

Oggi ogni “corsa” in più ha un costo, quantificato in base a ogni dettaglio, dal numero di posti, all’età del treno, alla fascia oraria, e non è più, come una volta, solo quello del personale di bordo: il “catalogo” di Moretti funziona come un menù per chi voglia far correre anche un solo treno in più.

Moretti, chiamato a scelte difficili per risanare il bilancio dell’azienda, ha iniziato a parlare dei rami secchi di cui farebbe volentieri a meno. Uno è il trasporto regionale, inteso come divisione: qualche mese fa l’Ad dichiarò che Trenitalia non avrebbe partecipato a una gara per gestire il servizio in Sardegna e che avrebbe passato personale e materiale rotabile al vincitore. La sua era una provocazione: in realtà le gare per il trasporto regionale non si fanno, anche se il settore è formalmente liberalizzato dal 2000. Trenitalia è ancora monopolista: anche se insufficienti, i fondi pubblici le fanno comodo, e così l’azienda tiene lontani i concorrenti con il nodo irrisolto della proprietà dei treni: oggi sono tutti di Trenitalia, che non ha nessun obbligo di passarli a un eventuale nuovo gestore.

In perdita, oltre ai treni regionali, ci sono molti treni a lunga e media percorrenza. Alle Fs risultano solo un centinaio di corse in attivo, 200 circa che grossomodo coprono i costi e una larga schiera di corse -350/400- che sono “sbilanciate”. Almeno cinquanta hanno perdite pesanti. La Finanziaria 2008, però, ha stanziato 104 milioni di euro (li trovate al comma 252 dell’art. 2) per salvare almeno queste corse, tra cui ci sono, ad esempio, praticamente tutti gli Intercity del centro-Sud.

Negli ultimi anni, per ridurre i costi, le Fs sono intervenute pesantemente sul trasporto regionale: alla scelta di declassare a “regionale” tutti i treni a tariffa base (controllate: anche un Torino-Ancona è “R” sui tabelloni di Trenitalia, mentre le sigle Ir e D -diretti- sono scomparse) corrisponde la possibilità di far viaggiare il treno con meno personale; l’idea di “rete snella”, invece, significa una ferrovia senza stazioni, senza scambi e senza “binari di troppo”: ci sono, cioè, meno punti in cui treni veloci possano superare quelli lenti e questo, a parità di corse, aumenta in ogni caso la congestione della linea, il rischio di ritardi e di malumore tra gli utenti.

In alternativa, Fs aumenta in modo artificioso i costi che i “regionali” pagano a Rfi per utilizzare la rete: una corsa spezzata, la Milano-Genova più Genova-Ventimiglia ad esempio, paga due volte l’uso dei “nodi”, perché l’ingresso e l’uscita è fatto da due treni diversi.

È come lavorare ai fianchi un servizio ferroviario che andrebbe rivitalizzato. Prima di sferrare il colpo del ko.



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Quegli aumenti nascosti

Le tariffe spiegano dove andranno le ferrovie. Secondo Fs, il costo del biglietto per il trasporto regionale è basso: l’azienda ricava 10,3 centesimi di euro per passeggero a chilometro, sommando il “corrispettivo” (6,8) ai ricavi da traffico (3,5). In Francia e in Germania il ricavo medio è doppio. Eventuali aumenti tariffari, però, possono essere decisi solo dalle Regioni: Trenitalia, così, ha fatto degli aumenti tariffari “nascosti”. Ad esempio, quando il passeggero utilizza due treni, lo obbliga a spezzare il viaggio in tratte più brevi: due biglietti in sequenza sono più costosi di uno solo. Oppure, allargando le fasce chilometriche: fino al 1991 erano di 5 chilometri. Oggi si è passati a fasce di 10 km e, oltre i 100 km, addirittura di 25: così una corsa di 101 km costa, per chilometro, un quarto in più di una di 125. Gli aumenti “nascosti” riguardano anche i servizi di mercato: dal 2006, con l’introduzione della prenotazione obbligatoria sui treni Intercity (gli Ic Plus), le tratte in cui si utilizza un Ic Plus vengono tariffate separatamente, anche quando l’altro pezzo del viaggio è fatto su un altro Ic. Anche le tariffe “di mercato” sono state bloccate, fino allo scorso anno: Tremonti, nel 2001, congelò la delibera Cipe 173/99, che aveva instaurato un sistema di aumenti condizionato

a obiettivi di qualità. La delibera regola ancora le tariffe, ma non è mai tornata “in corso”. “Il vantaggio -spiega Andrea Boitani, ordinario di Economia politica alla Cattolica di Milano- era dar certezza alle dinamiche tariffarie: l’azienda avrebbe potuto investire e migliorare la qualità del servizio, sapendo di aumentare così anche il proprio reddito”. Quando Moretti ha sbloccato le tariffe,

a inizio 2007, è tornato invece al metodo discrezionale, che non guarda avanti, ma a un passato da sanare. A gennaio 2008, commentando l’aumento del 15% delle tariffe Eurostar, Innocenzo Cipolletta, presidente di Fs, lo ha ribadito: i rincari “non sono per il miglioramento dei servizi, ma per compensare il disavanzo, pagare gli interessi alle banche e sanare i buchi del passato”. Fine corsa.



Aprile, la linea non c’è più

Le linee a rischio chiusura, da Nord a Sud, sono almeno una decina. Il 31 marzo 2008 potrebbe correre l’ultimo treno sulle tratte Ceva-Ormea, Asti-Mortara, Chivasso-Asti, Alessandria-Ovada (in Piemonte), Fabriano-Pergola (Marche), Cecina-Volterra (in Toscana), Sulmona-Carpinone (a cavallo tra Abruzzo e Molise), Rocchetta Sant’Antonio-Avellino (tra Puglia e Campania, già oggi c’è un solo treno al giorno), Rocchetta Sant’Antonio-Gioia del Colle. Anche una chiusura a metà, ossia ridurre il traffico a un paio di “coppie” (andata e ritorno) di corse al giorno, avrebbe lo stesso effetto: allontanare la gente dal treno, mantenendo peraltro il “costo fisso” di gestione dell’infrastruttura. Sono a rischio di taglio anche molti altri servizi locali, specie quelli che correndo sulle linee principali danno fastidio ai treni “di mercato”.



Una ragnatela divisa in due

L’Italia è attraversata da oltre 23mila chilometri di binari, 16.335 dei quali in esercizio da parte di Rete ferroviaria italiana, la società di Fs per la gestione della rete. Di questi, 6.034 sono considerati “linee fondamentali”, 9.390 “complementari” e 910 “nodi”. Oltre la metà della rete -in pratica, tutte le linee complementari- è a binario unico. Circa 5mila chilometri, invece, non sono elettrificati. Su questa rete viaggiano, ogni anno, 343 milioni di trenikm. Dopo la trasformazione dell’Ente Ferrovie dello Stato in una società per azioni, nel 1992, sono nate Rfi (www.rfi.it), nel 2001 e, l’anno prima, Trenitalia. A Rfi sono assegnati i binari e le stazioni, la “circolazione dei treni” (dai segnali a tutto il personale che li comanda, gli addetti alla circolazione), le “tracce” (cioè il fatto che ogni tratto di linea è disponibile per la circolazione di un treno in un dato tempo), la pulizia delle stazioni, l’erogazione delle informazioni, l’energia elettrica. Trenitalia è l’impresa ferroviaria: fa le corse, è proprietaria dei treni (locomotive e carrozze), dà lavoro a macchinisti, capitreno e conduttori, riscuote i biglietti pagati dai viaggiatori (www.trenitalia.it).

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