Esteri / Approfondimento
Tutto un altro Pianeta. Com’è cambiato il mondo dal nostro primo numero
Le schede sim attive negli smartphone e nei telefoni cellulari di tutto il mondo sono circa 7,6 miliardi. Poco più degli abitanti del Pianeta (7,5 miliardi). Le utenze attive però sono circa 5,2 miliardi (una persona può possedere più schede sim)…
Le schede sim attive negli smartphone e nei telefoni cellulari di tutto il mondo sono circa 7,6 miliardi. Poco più degli abitanti del Pianeta (7,5 miliardi). Le utenze attive però sono circa 5,2 miliardi (una persona può possedere più schede sim) su cui vengono generati 8,8 miliardi di giga-byte di traffico mobile che, in base alle rilevazioni dell’ultimo report di Ericsson, usiamo prevalentemente per guardare video (50%) e per gestire i nostri account social (nel 2017 Facebook ha raggiunto i due miliardi di utenti, Twitter 330 milioni). Gli smartphone sono diventati sempre più accessibili ed economici, destinati però ad avere vita breve: in media 21,6 mesi negli Stati Uniti, 19,5 mesi in Cina, 23,5 mesi in Inghilterra, 17,7 mesi in Italia. Una volta giunti a fine vita, questi dispostivi diventano e-waste, spazzatura elettronica, assieme a vecchi pc, lavatrici e frigoriferi. Nel 2016 ne abbiamo prodotte 44,7 milioni di tonnellate (pari a 4.500 volte la Tour Eiffel) ma solo il 20% (circa 8,9 milioni di tonnellate) è stato riciclato correttamente. Nel 1998, i rifiuti tecnologici prodotti ammontavano a circa 6 milioni di tonnellate.
Osservare quello che è finito nel bidone del Pianeta è uno degli indicatori che ci possono aiutare a capire quanto e in che modo è cambiato il mondo dal 1999, anno in cui è uscito il primo numero di Altreconomia, a oggi. Diciotto anni (diciannove, avendo messo il piede nel 2018) in cui la popolazione mondiale è passata da 6 a 7,5 miliardi di abitanti, il tasso di alfabetizzazione degli adulti è cresciuto dall’81% all’86% e la mortalità infantile è calata da 55,4 a 30,5 morti ogni mille nati. Mentre la percentuale di persone che vivono con meno di due dollari al giorno si è dimezzata, passando dal 29% del 2001 al 15% del 2011. Un mondo dove oggi il 23% dei parlamentari è donna (+6% rispetto al decennio precedente, fonte Undp) e dove 26 Paesi consentono il matrimonio tra persone dello stesso sesso: il primo a garantire il diritto fu l’Olanda nel 2000. Un mondo che oggi deve affrontare il cambiamento climatico: “Noi siamo la prima generazione a sentirne gli effetti e l’ultima generazione che può fare qualcosa a riguardo”, ammoniva Barack Obama, ex presidente degli Stati Uniti, durante la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima di Parigi del novembre 2015. Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila il cambiamento climatico era un tema ancora molto dibattuto, anche in seno alla comunità scientifica, soprattutto sulle cause del riscaldamento globale, se si dovesse attribuire -in tutto o in parte- alle attività umane.
16 dei 17 anni più caldi registrati dal 1880 a oggi si sono verificati dopo il 2001: unica eccezione il 1998. Nel 2003 l’ondata di calore in Europa ha provocato circa 35mila morti
Di quell’acceso dibattito restano oggi poche tracce: il cambiamento climatico oggi è sotto gli occhi di tutti ed è innegabile. Il rischio, però -le parole sono del presidente francese Emmanuel Macron-, è quello di “perdere la battaglia”. Con gli Accordi di Parigi del 2015, i 95 Paesi firmatari si sono impegnati a ridurre le emissioni e mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali. “Ma non andiamo abbastanza veloci”, ha segnalato Macron nel dicembre 2017, a due anni esatti dalla firma degli Accordi. Nel 1999, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera era di 366,72 parti per milione, e ha continuato a crescere inesorabilmente. Il 2016 è stato l’anno record: 403,3 parti per milione in base ai dati dell’Organizzazione meteorologica mondiale (wmo.int). E l’asticella potrebbe alzarsi ancora: la media per il mese di novembre 2017 è salita a 405,14 parti per milione. Altrettanto allarmante, l’aumento delle temperature medie globali. Le rilevazioni della Nasa (climate.nasa.gov) mettono in evidenza come 16 dei 17 anni più caldi registrati dal 1880 a oggi si sono verificati dopo il 2001. Nel 2003, l’ondata di calore che ha colpito l’Europa, ha provocato circa 35mila morti. Secondo la WMO, tra il 2000 e il 2016 il numero di persone vulnerabili esposte a ondate di calore è aumentato di circa 125 milioni.
Nel dicembre 2017 la Banca Mondiale ha annunciato che non finanzierà più progetti di esplorazione di nuovi giacimenti di gas e petrolio dopo il 2019
Gli effetti del cambiamento climatico sono evidenti anche in Italia. Il report di Legambiente “Le città alla sfida del clima” evidenzia come le inondazioni abbiano provocato la morte di oltre 145 persone e oltre 40mila evacuati solo nel periodo 2010-2016. Mentre in appena tre anni, dal 2013 al 2016, sono stati aperti 56 stati di emergenza a seguito di eventi alluvionali, per un danno di circa 7,6 miliardi di euro. La sfida del cambiamento climatico è legata a filo doppio alle politiche energetiche e alla nostra capacità di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. Negli ultimi vent’anni le energie rinnovabili hanno fatto un balzo in avanti: oggi forniscono il 19,3% dell’energia a livello globale e iniziano ad attrarre più investimenti rispetto all’industria delle fonti fossili: “(Nel 2016) per il quinto anno consecutivo -si legge nell’edizione 2017 del report annuale di Ren21 (‘Renewable Energy Policy Network for the 21th century’)- l’investimento nella produzione di energia rinnovabile, compreso l’idroelettrico, è stato circa il doppio rispetto all’investimento in capacità di generazione di combustibili fossili, raggiungendo i 249,8 miliardi di dollari”. Solo per il solare nel 2016 sono stati installati e connessi alla rete nuovi impianti per una produzione totale di 76,6 GigaWatt (GW), con un aumento del 50% rispetto ai 51,2 GW del 2015 (Global Market Outlook 2017 – SolarEurope). A trainare il settore è la Cina, che ha installato e connesso impianti per un totale di 34,5 GW (+128% rispetto all’anno precedente). Crescono anche i disinvestimenti nell’industria fossile: l’istituto bancario olandese ING, ad esempio, ha annunciato lo scorso 12 dicembre che abbandonerà tutti gli investimenti nel settore del carbone entro il 2025. Negli stessi giorni anche la Banca Mondiale ha stabilito che non finanzierà più progetti di esplorazione di nuovi giacimenti di gas e petrolio dopo il 2019.
Sono più di 77mila le specie di piante e animali a rischio sul Pianeta secondo l’Union for the conservation of nature and natural resources (Iucn)
Dal 1999 a oggi è cresciuto anche lo sfruttamento delle risorse naturali: nel 2017 l’Overshoot day (il giorno che indica il momento in cui le risorse disponibili sulla Terra si sono esaurite per l’anno in corso) è caduto il 2 agosto. Significa che in sette mesi abbiamo consumato interamente le risorse rinnovabili prodotte dalla Terra in tutto l’anno. In altre parole, “l’umanità sta usando la natura a un ritmo 1,7 volte superiore rispetto alla capacità di rigenerazione degli ecosistemi. È come se ci servissero 1,7 Pianeti per soddisfare il nostro fabbisogno attuale di risorse naturali”, si legge sul sito del “Global footprint network”. Negli ultimi vent’anni, la data dell’Overshoot day è caduta sempre prima nel calendario: nel 1999 era al 30 settembre, nel 2009 era al 20 agosto. La terra su cui camminiamo oggi è molto più povera rispetto a venti anni fa. Tra il 1990 e il 2015 sono stati cancellati 129 milioni di ettari di foreste (fonte Fao). Solo nel periodo compreso tra il 2000 e il 2012 abbiamo perso 1,1 milioni di chilometri quadrati di foreste tropicali (vera e propria cassaforte della biodiversità e polmoni verdi del Pianeta), una superficie vasta quanto la Spagna. Le foreste hanno lasciato spazio a campi di soia, a miniere oppure sono state abbattute per ricavare legname pregiato. Insieme alle foreste scompaiono migliaia di forme di vita. Sono più di 77mila le specie di piante e animali a rischio secondo l’Union for the conservation of nature and natural resources (Iucn). Anche il suolo fertile scompare sotto i nostri piedi. In Europa, ogni anno, viene cementificata un’area pari a mille chilometri quadrati: “Più o meno equivalente a una città come Berlino”, scrive l’Ispra (isprambiente.gov.it) nel suo ultimo rapporto. Mentre in Italia tra il 2015 e il 2016 ci siamo mangiati circa 30 ettari di suolo ogni giorno. La sfida dei cambiamenti climatici e il progressivo impoverimento delle risorse naturali hanno profondi impatti anche sulla mobilità, forzata, delle persone. Già oggi, gli eventi climatici estremi e l’aumento delle temperature costringono ogni anno circa 21,5 milioni di persone a lasciare le proprie case. Persone che, come spiega il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, “non sono propriamente migranti, nel senso che non sono partiti volontariamente dalla propria terra. Ma al tempo stesso non sono tutelati dalle norme che garantiscono lo status di rifugiato, e così si trovano in un vuoto legale”.
Nel 1997 entra in vigore la Convenzione di Dublino “sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo”
Per l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (unhcr.org) quella che stiamo affrontando negli ultimi anni è “la più grande crisi di rifugiati dal secondo dopoguerra a oggi”: 65,6 milioni di persone che nel 2016 sono state costrette a lasciare la propria casa. Di questi, 22,5 milioni sono rifugiati, ovvero persone in fuga che hanno dovuto lasciare il proprio Paese per fuggire da guerra, dittatura o persecuzione politica. Più del 55% dei rifugiati proviene da soli tre Paesi: Siria, Afghanistan e Sud Sudan. Nel 1999 i rifugiati censiti dall’Unhcr erano 14 milioni 863mila. Persone in fuga dalla guerra in Kosovo (circa 750mila), da Timor Est (200mila), dalla Cecenia (155mila). Nel 2016 l’Europa ha accolto 2,3 milioni di rifugiati, ma la maggior parte dei profughi si è concentrata nei Paesi limitrofi alle zone di crisi: Turchia (2,9 milioni), Pakistan (1,4 milioni) e Libano (1 milione).
Il grande cambiamento che si registra tra la fine degli anni Novanta e gli anni Duemila è dato dall’introduzione di una serie di norme a livello europeo che hanno come principale obiettivo quello di limitare il flusso dei richiedenti asilo. Nel 1997, infatti, entra in vigore la Convenzione di Dublino “sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo” che -malgrado le successive modifiche- ancora oggi obbliga i richiedenti asilo a presentare domanda di protezione internazionale nel primo Paese europeo in cui mettono piede. Nel 2000 viene istituito Eurodac, il database europeo che raccoglie le impronte digitali di tutti i cittadini extracomunitari che presentano domanda di asilo e di quanti entrano irregolarmente in Europa. Nel 2004 viene istituita Frontex, rinominata nel 2016 Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera con un budget iniziale di 280 milioni di euro, che potranno arrivare fino a 322 milioni nel 2020.
Da emergenza umanitaria, la gestione dei flussi dei richiedenti asilo si è progressivamente trasformata in una questione di sicurezza. Una politica che ha avuto costi altissimi, innanzitutto in termini di vite umane. Offrire dati precisi è molto difficile, ma secondo le stime dei giornalisti autori dell’inchiesta “The migrants files” (themigrantsfiles.com) tra il 2000 e il 2015 almeno 30mila richiedenti asilo e migranti sarebbero morti nel tentativo di raggiungere l’Europa. A cui vanno aggiunti gli 8mila morti censiti dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni (IOM) tra il 2016 e il 2017 solo lungo la rotta del Mediterraneo.
La mappa globale dei flussi di rifugiati coincide perfettamente con quella delle guerre: sono decine i conflitti scoppiati negli ultimi 18 anni, dei quali ancora 49 in corso nel 2016. Ad alimentarli un flusso di armi -leggere e pesanti- che nel 2016 ha raggiunto il valore record di 1.676 miliardi di dollari. Eppure gli anni Novanta erano stati incoraggianti. Con il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda si era registrato un progressivo calo delle spese militari globali: il punto più basso è stato nel 1998, con una spesa di 1.004 miliardi di dollari (in valori costanti al 2015). Già dal 1999, in base alle stime del Sipri (Stockholm international peace research institute, sipri.org) si è registrata una leggera risalita (1.027 miliardi di dollari) ma è con l’inizio della “Guerra globale al terrorismo”, lanciata nel 2001 dal presidente americano George W. Bush dopo l’attentato alle Torri Gemelle, che le spese militari iniziano a crescere in maniera esponenziale.
Tra i principali acquirenti delle armi prodotte al mondo ci sono oggi i Paesi arabi: la sola Arabia Saudita -che dal 2015 è impegnata nel conflitto in Yemen- ha importato l’8,2% delle armi a livello globale. Preceduta dall’India (13%) e seguita da Emirati Arabi (4,6%), Cina (4,5%) e Algeria (3,7%).
Un settore in cui l’Italia gioca un ruolo da protagonista. Nel 2016 le esportazioni italiane di sistemi militari hanno superato i 14,6 miliardi di euro (+85,7% rispetto all’anno precedente). Inoltre, come ha evidenziato l’ultimo rapporto di Opal (Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa, opalbrescia.org) sono aumentate in maniera significativa le vendite di armi e munizioni verso l’Arabia Saudita: 28,4 milioni di euro nei primi sei mesi del 2017, moltiplicando per sei il fatturato rispetto allo stesso periodo del 2016.
Un flusso di armi che alimenta non solo i conflitti, ma anche il terrorismo internazionale. Tra il 2000 e il 2016, in soli 10 Paesi (Iraq, Afghanistan, Nigeria, Siria, Pakistan, Yemen, Somalia, India, Turchia, Libia) ho provocato circa 150mila vittime secondo le stime dell’Institute for economics and peace. “Dal 2000, il 99% delle vittime si è registrata in Paesi in guerra o con alti livelli di instabilità politica”, si legge nell’ultima edizione 2017 del “Global terrorism index”: in Pakistan il terrorismo ha fatto 956 vittime, in Siria più di duemila, in Nigeria 1.831, in Afghanistan e Iraq (entrambi bersaglio della “Guerra globale al terrorismo”) rispettivamente 4.574 e 9.785 morti.
Sebbene il loro numero sia in calo, oltre alle armi tradizionali, nel mondo si contano ancora 14.900 testate nucleari. E mentre si aggrava la tensione tra Stati Uniti e Corea del Nord, un segnale importante arriva dal comitato per il Nobel che, lo scorso dicembre, ha assegnato all’Ican, la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, il Premio Nobel per la Pace.
In questi anni la Terra si è impoverita e tra i suoi abitanti sono aumentate le diseguaglianze malgrado la crescita del “ceto medio”, quella fascia di popolazione in cui rientrano coloro che -secondo l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa)- guadagnano o possono spendere tra i 10 e i 100 dollari al giorno. Chiunque abbia un reddito disponibile e abbastanza soldi per comprare un frigorifero o pensare di acquistare un’auto. Nel 2009, circa 1,8 miliardi di persone si trovavano in questa fascia di reddito ed erano soprattutto americani (338 milioni), europei (664 milioni) e asiatici (525 milioni). Appena quattro anni dopo, nel 2013, la middle class globale è arrivata a quota 4,9 miliardi ed è formata al 66% di cittadini asiatici. A prima vista, una buona notizia: se un numero maggiore di persone entra a farne parte vuol dire che le disuguaglianze si stanno riducendo. Purtroppo, non è così.
“Nelle economie emergenti, come India e Cina -spiega l’Osce- un periodo sostenuto di forte crescita economica ha contribuito a far uscire milioni di persone dalla povertà assoluta. Ma i benefici della crescita non sono stati distribuiti in modo uniforme e gli alti livelli di disuguaglianza di reddito sono ulteriormente aumentati”. Seppure con parametri di riferimento diversi, i dati del “Global Wealth Databook 2017” elaborato da Credit Suisse confermano il persistere delle ineguaglianze: dal 2000 al 2017 la ricchezza media per adulto è aumentata del 12% passando da 31 a 56 dollari. Ma se si guarda alla concentrazione della ricchezza, si osserva che all’inizio del Millennio l’1% più ricco della popolazione deteneva 45,5% della ricchezza globale, salita nel 2017 al 50,1%. Anche il mercato globale del lavoro è cambiato profondamente. A partire da un importante aumento del numero dei disoccupati censiti dall’Organizzazione mondiale per il lavoro (Ilo), passati dai 150 milioni del 1999 ai 196 milioni nel 2016. Al contrario, tra il 2000 e il 2015 l’agenzia delle Nazioni Unite ha registrato una diminuzione di quelli che definisce “working poors” persone che pur avendo un lavoro non riescono a mantenersi con il proprio stipendio dal momento che questo non supera i 3,1 dollari al giorno.
Il loro numero è sceso di 479 milioni tra il 2000 e il 2015 attestandosi a quota 783 milioni nel 2016 tra i Paesi in via di sviluppo e in quelli considerati “emergenti”. Tuttavia, la crescita demografica in questi Paesi rischia di annullare i risultati raggiunti e l’Organizzazione mondiale per il lavoro si aspetta che il numero dei “working poors” torni a crescere fino a 3 milioni di unità l’anno fino al 2018.
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