Esteri / Opinioni
Alcune note economiche a caldo sull’elezione di Donald Trump
L’inflazione e l’aumento delle disuguaglianze legato alla finanziarizzazione hanno fatto la differenza, sancendo il tracollo dei Democratici. L’insofferenza popolare ha fatto il resto. Prevale un modello confuso, che non esiste, ma che è radicato nella percezione di larga parte degli americani. Con eroi di cartapesta e uomini bianchi ricchissimi che si atteggiano a intimi compagni di bevute. L’analisi di Alessandro Volpi
Il Prodotto interno lordo, lo sappiamo, non misura lo stato di salute di una popolazione: la politica economica di Joe Biden ha fatto esultare i giornali italiani che sostenevano l’importanza di una crescita del 3%, molto più forte di numerosi Paesi europei, ma tale crescita non è affatto bastata a spingere i Democratici.
I due temi veri -che dovrebbero far riflettere- sono rappresentati dall’inflazione e dall’aumento delle disuguaglianze legato alla finanziarizzazione; questi due elementi hanno decisamente pesato di più nell’elettorato americano rispetto a una crescita del Pil di cui hanno beneficiato solo le fasce medio alte della popolazione.
I record macinati da Wall Street hanno ricadute fortemente polarizzate nei vertici della piramide sociale americana e non si traducono in consenso a chi governa durante tale impennata.
Kamala Harris si è spostata verso un ceto medio, decisamente benestante, che non rappresenta più il cuore della società americana e la politica degli alti tassi della Federal reserve ha messo in ginocchio le ormai infinite piccole imprese statunitensi, che non hanno beneficiato a differenza dei grandi gruppi, peraltro con pochi dipendenti, delle misure dell’Inflation reduction act.
Trump e Vance sono stati interpretati come una possibile soluzione alla visione economica dei Democratici, decisamente elitaria e vicina ai grandi monopoli, a cominciare da quello dei tre grandi fondi egemoni, BlackRock, Vanguard e State Street.
Su un piano più specifico, Trump ha dato voce ai sindacati arrabbiati contro le case automobilistiche, ormai più attente alla finanza che alla produzione, ai sostenitori dell’economia dei Bitcoin e al vasto mondo degli hedge fund aggressivi: in sostanza a pezzi della vecchia America e della nuova. Dai dipendenti dei casinò, ai farmer, ai sempre più sparuti operai, alle microimprese.
Il nuovo presidente ha poi interpretato -e questo è un terzo dato- l’insofferenza popolare verso il modello “illuministico” dell’America sostenitrice dei diritti civili e dell’esportazione dei conflitti in nome di una democrazia sempre più incomprensibile: in fondo l’opinione pubblica Usa non apprezza certo l’ostilità maturata verso il Paese dai quattro quinti del mondo. Non piace neppure al “popolo americano” il rapporto bostoniano con la Vecchia e stanca Europa.
Quel popolo vuole eroi di cartapesta ma dai tratti decisamente muscolari e anti-sistema come Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo che parla e si atteggia come i frequentatori dei tanti bar americani; non ascolta più il monito dei colti attori o dei superricchi sportivi che hanno abbandonato le loro radici.
In sintesi estrema, Trump è l’incarnazione di un modello confuso, che forse non esiste, ma è molto forte nella percezione degli americani, a cui la criminalizzazione dei democratici e persino le condanne penali hanno dato forza. Nel Paese dei siti porno, un presidente che ha pagato una pornostar non rappresenta un cattivo esempio, ma un compagno di bevute.
Ecco, Kamala Harris non ha capito, o forse non poteva capire, che la dimensione popolare vale molto di più, in termini di consenso, della raffinata difesa di una civiltà ormai osteggiata da larghissima parte del mondo.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
© riproduzione riservata