Ambiente
Siete pronti alla transizione energetica?
Il nuovo libro di Altreconomia spiega come passare dalle fonti fossili alle rinnovabili si chiama "Questa svolta tocca a noi". Lo potete preacquistare su Produzioni dal basso. Per tutti, un anticipazione delle proposte di EnergoClub Onlus e un breve stralcio dell’intervista a Ellen Bermann di Transition Italia
“Il problema climatico è un problema globale e lo si può risolvere soltanto a livello globale”.
Lo scrive Ugo Bardi, professore dell’Università di Firenze e Past President di Aspo Italia nel primo capitolo di Questa svolta tocca a noi, il libro appena uscito per Altreconomia edizioni e ancora disponibile – fino a… esaurimento – sul sito di crowdfunding www.produzionidalbasso.it.
Un libro che accende lampadine a ogni pagina, sia per le idee che per le proposte concrete in tema di energia, con i contributi di decine di esperti italiani e internazionali. Bardi ne coglie bene lo spirito: “Occorre agire e per agire è necessario ottenere un consenso a livello internazionale. L’ottenimento del consenso è l’essenza del concetto di politica. Quello che ci troviamo davanti è un problema politico e come tale lo dobbiamo trattare”.
Ecco due anticipazioni dal libro: un estratto dal capitolo 2, sulla situazione delle fonti di energia in Italia, e l’intervista a Ellen Bermann, presidente di Transition Italia
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L’energia del futuro
L’energia che usiamo oggi inquina, emette gas serra, contribuisce ad accentuare il divario tra i paesi più ricchi e quelli meno sviluppati ed è il fattore scatenante dei più importanti conflitti internazionali. Procedere alla progressiva dismissione e sostituzione degli attuali sistemi energetici centralizzati che sfruttano le risorse esauribili, a favore di un impiego diffuso e sostenibile delle fonti rinnovabili – più facilmente accessibili, meno impattanti, democraticamente ed equamente distribuite nel territorio – favorirebbe anche un maggior rispetto dei diritti umani.
Ma i presupposti per la transizione alle fonti pulite si basano su una conversione più radicale, che affonda nell’utilizzo delle risorse in genere.
La Terra è un sistema finito e non compatibile con una crescita e uno sviluppo illimitati. Globalmente utilizziamo ben più risorse di quante la Terra sia in grado di generare e produciamo più rifiuti di quanti ne possa assorbire.
Il primo traguardo da raggiungere riguarda infatti la riduzione del consumo globale di energia, acqua e materie prime. In che modo? Rendendo più efficienti i cicli produttivi, programmando la dismissione di tecnologie inquinanti e obsolete, ecoprogettando prodotti e servizi, rendendo riutilizzabili e riciclabili l’acqua e i rifiuti che non possono essere evitati, favorendo le pratiche agricole sostenibili, abbattendo i consumi del settore residenziale e dei trasporti. Solo a quel punto saremo pronti per un futuro sostenibile in cui la domanda energetica sarà soddisfatta esclusivamente da energia da fonte rinnovabile.
Ma la Strategia energetica nazionale, approvata con decreto ministeriale lo scorso 14 marzo 2013, oltre a fermarsi ad un orizzonte al 2020 – la sua più grave debolezza – dedica risorse assolutamente inadeguate alla necessità e urgenza di promuovere un sistema a basse emissioni. Le politiche in atto e in programma contrastano deliberatamente la conversione del sistema dalle fossili alle rinnovabili. Secondo EnergoClub (che ha curato il libro) al nostro Paese servirebbe un Piano energetico nazionale (PEN) che determini la politica energetica per i prossimi decenni, programmando nel tempo la transizione. La strategia del PEN non dovrebbe destinare risorse a tecnologie che si basano su risorse esauribili, già in esaurimento, ma dare indicazione agli operatori del mercato (i produttori e i distributori di energia, ma anche i singoli cittadini e le famiglie) delle azioni del governo, delle opportunità e degli incentivi (economici o altro), in modo da permettere di programmare strategie e investimenti sulla base di uno scenario certo e definito anche sul medio e lungo periodo. Il PEN di transizione dovrebbe prevedere sia azioni propedeutiche (ad esempio l’introduzione di norme che prevedano il rapporto commerciale diretto tra privati per lo scambio di energia elettrica, con la mediazione solo della rete elettrica), sia azioni di progressiva sostituzione. Secondo il Piano Energetico Nazionale proposto da EnergoClub al 2050 le FER potrebbero contribuire per una quota dal 90 al 100% della domanda totale, a seconda dell’origine della quota di energia elettrica che verrebbe in ogni caso importata. La produzione nazionale passerebbe dall’attuale 20% totale (10% esauribili, 10% FER) ad un 80% (solo FER), il che significa che è sostanziamente possibile arrivare all’indipendenza energetica.
Se l’Italia decidesse poi di collaborare con i Paesi Nord africani per sviluppare sistemi solari in partnership sarebbe possibile soddisfare il 100% della domanda con fonti rinnovabili.
Dice Francesco Padovan, presidente di EnergoClub Onlus: “L’interruttore che consentirà di passare dall’economia basata su fonti fossili e generazione in grandi poli energetici all’economia fondata su fonti rinnovabili e generazione diffusa nel territorio, infatti, non è “elettro-meccanico” ma “elettro-neuronale”.
Si trova nel nostro cervello. Non appena avremo rimosso i nostri blocchi psicologici e culturali l’interruttore sarà attivato e ci potremo incamminare spediti verso un mondo più sostenibile.
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Intervista a Ellen Bermann (a cura di Sara Capuzzo, Responsabile Comunicazione di EnergoClub Onlus)
In risposta a quali premesse, urgenze e bisogni nasce il Movimento delle Transition Town?
Il movimento nasce dalle riflessioni sul cambiamento sistemico in corso. A partire dalla questione dell’emergenza energetica. Rob Hopkins, cofondatore del movimento, assistette – in Irlanda – a una conferenza sul picco del petrolio tenuta da Colin Campbell e ne uscì folgorato. Ai tempi lavorava a Kinsale come insegnante di permacultura. Propose questo tema ai propri studenti che insieme a lui svilupparono un piano di decrescita energetica per la cittadina di Kinsale. Sembrava un mero esercizio accademico. Ma Rob, tornando alla sua città – Totnes – intuì che poteva nascere qualcosa e iniziò quello che noi conosciamo come il processo della transizione.
Lui e qualche altro amico – all’inizio erano solo in due – iniziano a compiere quei primi passi che solo dopo saranno “formalizzati”: formano il gruppo, iniziano a discutere il tema, fanno sensibilizzazione, creano eventi. Da qui nascono diverse iniziative e riflessioni su quello che sta cambiando: all’inizio sicuramente il movente è la crisi energetica, ma presto nasce la riflessione sul cambiamento climatico in atto e sulla crisi delle risorse. (…) uno dei concetti fondamentali è quello di resilienza: la capacità di un sistema sociale (o di un organismo) di far fronte a cambiamenti e shock e di continuare a funzionare, malgrado tutto. Se esiste una “rete” di resilienza tra le persone, gli individui non sono più soli, ma tramite la connessione riescono a fare delle cose insieme. Questo ha anche una valenza sociale, perché lavora sul sentirci “emarginati” e quindi non avere una vita soddisfacente dal punto di vista relazionale e sociale. Oggi la crisi porta disperazione: c’è chi si suicida perché non ce la fa più. Non lo aiuti con quattro soldi, ma mettendolo in relazione con altre persone e aiutandolo a trovare delle soluzioni comuni e un proprio “posto” all’interno di una rete forte e resiliente, fatta da persone che si incontrano e a cui importa di te. (…)
Come si caratterizza l’approccio della Transizione?
Chi conosce la permacultura sa bene che l’approccio della Transizione è “permacultura applicata”, in ambito sociale. Si lavora con la natura umana: hai le persone che hai, con le loro passioni e le loro conoscenze. Non puoi imporre loro un determinato tema se non sono pronte. Devi chiederti: “se questa cosa al momento non funziona, di che cosa hanno bisogno. Di più informazioni? Di formazione specifica su un certo tipo di tema? O di incontrarsi e confrontarsi, perché non comunicano?”. È importante sviluppare una sorta di sensibilità e di ascolto interno alla tua realtà e smettere di imporre le cose dall’“alto”. Fermatevi un attimo. Create le condizioni e poi capite con tutte le persone quello che loro vogliono fare. È importante infatti che le persone abbiamo la responsabilità di quello che succede o non succede. (…) vale molto l’umiltà di ammettere di non sapere. L’approccio della Transizione non è integralista e non snob. Non fai proselitismo, non vuoi inculcare sensi di colpa. Vuoi fare transizione alla Ferrari, vuoi farlo al McDonald? Ok, fallo. Non dice assolutamente che cosa devi fare. Quando parliamo con i gruppi della sensibilizzazione, ribadiamo sempre che non serve “convincere” le persone. L’abbiamo fatto per anni nell’ambiente ambientalista. Non funziona. Perché le persone cambiano solo quando loro sono pronte e quando gli dai lo spazio e gli strumenti per farlo, con un loro personale percorso. Il punto centrale è in che modo possiamo trovare – in modo collettivo – una condizione per fare succedere le cose.
Cosa distingue il modello della Transizione dal Movimento per la decrescita felice?
La principale differenza rispetto al Movimento della decrescita felice è su come fare le cose piuttosto che sul che cosa fare. Il focus della transizione è sul percorso, mentre la Decrescita rappresenta forse più un tentativo di fornire una ricetta. Per noi è molto più importante come le persone arrivano alle proprie soluzioni. È una sorta di processo di empowerment collettivo che va oltre la sfera individuale e che induce le persone a usare molta più creatività di quanto si faccia di solito. Indubbiamente conosciamo i nostri limiti ma nel momento in cui creiamo le condizioni in cui le persone interagiscono in un altro modo, senza paura di essere giudicate, allora vediamo veramente quello che poi nella Transizione si definisce “genio collettivo”, che produce una soluzione a cui nessuno avrebbe pensato. Facendo incontrare queste persone che interagisono in modo libero, spontaneo, senza remore, ecco che magari – tra le follie – esce veramente la soluzione giusta. (…) non possiamo pretendere che chi, oggi, scopre di avere un problema l’indomani metta i pannelli fotovoltaici sopra il tetto. Deve anche capire perché. C’è molta differenza. Molte persone hanno dei pannelli fotovoltaici sul tetto. I pannelli sono gli stessi, ma per noi è fondamentale in che modo queste persone sono arrivate a installarli: perché hanno ricevuto gli incentivi o perché hanno capito e “sentito” quello che devono fare? È molto più forte, anche a livello di contagio potenziale, se c’è una convinzione intima, non indotta dall’esterno.