Ambiente / Opinioni
Olimpiadi a tutti i costi: una storia già vista
Il sindaco di Milano ha promesso che “i fondi si troveranno”. La visione di lungo periodo sembra cedere alla vetrina dei grandi eventi
“Niente soldi dal governo? Lombardia e Veneto sono più ricche della Svezia: i fondi si troveranno”. Sono parole del sindaco di Milano pro Olimpiadi invernali 2026. Una frase non felice né innocua per cinque ragioni.
1. Usa la forza, quella brutale del Pil: la spada buona per tutte le stagioni, che trafigge tutto e tutti e rende sordo il suo cavaliere. Ma l’idea che se uno è ricco può tutto, vince ancora. E questo basta per sbarazzarsi del governo di turno. Sovranismo in salsa locale? Ma se la ricchezza vince su tutto, questo vale ovunque? Per dire: se uno è ricco e ha un terreno su cui vuole costruire, può usare il metodo Pil e fregarsene del governo comunale? Del piano? Può non aspettare la concessione edilizia? Con ciò, si badi, non dico che non ci si deve opporre a un’ideologia governativa che si ritiene sbagliata, ma non è mai privo di rischio farlo con la violenza dell’eccesso e schiacciando spocchiosamente le istituzioni superiori, soprattutto a colpi dell’obsoleto Pil (povero Amartya Sen). Fa buona cultura civile?
2. Perché tutta questa forza del Pil per le Olimpiadi e non invece per le periferie? Il governo blocca i finanziamenti alle periferie (cosa ignobile!), ma lo stesso sindaco non brandisce il Pil per dire che si provvederà lo stesso. Due pesi e due misure?
3. Fatemi dire che sono stufo marcio di un’Italia che usa gli eventi per darsi un futuro. Gli eventi non sono nulla di strutturale. È chiaro? Sono “vetrina”. E sono pure possibili trappole da cui si sono sfilate Boston e Amburgo nel 2015 dopo referendum che a Milano neppur si sognano. Le Olimpiadi Torino 2006 hanno generato spese folli, tanto cemento sulle montagne e parecchia roba ci è rimasta sul gobbo. Dei conti di EXPO/postEXPO sappiamo poco, ma ci hanno ordinato di credere che sia stato un grande affare. Secondo me, la butto lì, chissà che una bella spinta al nostro declino culturale e politico non sia arrivata proprio dal super evento dei mondiali di calcio Italia 90. Ricordate? Stadi finiti all’ultimo, deroghe urbanistiche, alberghi incompiuti (pure a Milano), spese lievitate, mutui accesi di corsa a tassi improbabili e finiti di pagare nel 2015. E cosa abbiamo vinto? La coppa tangentopoli 1992?
2026. La data delle prime Olimpiadi invernali candidate a colpi di Pil locale, senza conti precisi e consultazioni popolari. Destinati a scivolare sul ghiaccio degli eventi?
4. Smettiamo di pompare il mito “Milano uber alles”. È pericoloso e umilia tutto il resto. E non è neppur vero al 100%. Milano è sicuramente una grande città, ma non priva di difetti da oscurare con il bagliore degli eventi. Non è EXPO che ha evitato a decine di migranti di dormire e mangiare nel sottopasso ferroviario Mortirolo, il posto più inquinato e tossico della città. E nessuno dice che il Pil lombardo provvederà. L’Italia non è solo Milano. L’Italia è fatta di dure periferie, piccoli comuni (il 70%), aree interne (60%), terre fragili soggette a mille rischi. Ci serve davvero una Milano acchiappatutto che si salva da sola? Non è meglio averne una che usa la sua reputazione per innescare generosità? Non chiedo la carità, ma un Robin Hood che usi la sua rendita di posizione politica per generare il desiderio di prendersi cura dei territori più deboli e non per allungare il passo sugli altri. Sogno una Milano alla don Milani dove si impara e si insegna “Che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.
5. Alla fine il virus che contagia molta politica oggi è una corrente opaca fatta di arroganza, violenza, strappi. Non saranno gli spintoni a salvarci ma le parole di Simone Weil: “La purezza nella vita pubblica consiste nell’eradicazione assoluta di tutto ciò che è forza”.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)
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