Opinioni
Le storie preziose non hanno genere
Il femminicidio è frutto di "una concezione della donna come un oggetto di possesso a cui si può comandare: tanto che se una donna non risponde più agli ‘ordini’ o vuole una vita propria non ha più diritto di esistere. Si può uccidere". Dalla prefazione di Serena Dandini a "La guerra a casa", il libro di Damiano Rizzi per Altreconomia Edizioni
Quando ho finito di leggere il libro di Damiano Rizzi ho subito pensato che avesse un grande valore simbolico. Che cogliesse non solo gli aspetti pratici ma anche la questione filosofica di questo dramma. In questo libro c’è il contrasto netto tra la sua sensibilità di uomo – tanto è vero che il suo lavoro è proprio portare conforto in Paesi “dimenticati” e sconvolti dalla guerra – e la consapevolezza di non essersi accorto, non è certo scontato, che in corso c’era un altra guerra vicino, anzi dentro a casa sua.
Questo libro è – drammaticamente – la fotografia del presente. Il femminicidio e la violenza sulle donne sono eventi che – nonostante il tempo che è passato e tutti i cambiamenti nella nostra società – definiamo ancora come delitti d’impeto, il momento di follia, il “raptus”. Purtroppo invece sono quasi sempre dei delitti annunciati, figli della mentalità patriarcale di cui è intriso tutto il nostro Paese. Lo dicono le statistiche. Gli assassini non sono quelli che forse l’ignoranza ci faceva additare: persone poco istruite, in condizioni economiche poco agiate, migranti. Sono invece persone colte e meno colte, di età e provenienza geografica diversa, giovani o vecchi, del Nord e del Sud, che in comune hanno una concezione della donna come un oggetto di possesso a cui si può comandare: tanto che se una donna non risponde più agli “ordini” o vuole una vita propria non ha più diritto di esistere. Si può uccidere.
Anche l’uomo – non esiste la dicotomia donna buona, uomo cattivo – è vittima di una cultura: nel momento della “crisi” qualcuno non riesce ad elaborare pensiero, e si trova allora invischiato nel brodo priomordiale dei padri, dei nonni, degli avi. In quella mentalità di cui il nostro Paese – e non solo – non si è ancora liberato. Del resto in Italia le tracce sono ancora fresche.
Il delitto d’onore è stato cancellato dal nostro codice penale solo nel 1981, la riforma del diritto di famiglia porta la data del 19 maggio 1975, lo stupro – fino al 1996 – era collocato tra i reati contro la morale. Non contro la persona. C’era una volta questo Paese e in parte c’è ancora.
Il libro di Damiano ci fa capire come anche in un contesto di civiltà e acculturato possa persistere questo peso antico. Le istituzioni contribuiscono a tenere basso il profilo e sminuire il problema: è scandaloso che non ci sia un ministero per le Pari Opportunità (la delega oggi ce l’ha Matteo Renzi) perché non è un’omissione solo simbolica. Ci sono in gioco provvedimenti concreti, programmi da finanziare.
In questo mondo, nel silenzio delle norme, bisogna continuare a dire – come fa Damiano – che la violenza non è un destino ineluttabile. Non si può continuare a pensare né che sia normale – spesso si sente dire “che ci vuoi fare, sono i rapporti tra uomo e donna” – né che sia un fatto “privato”. Non lo è. Non bastano pene più severe. Bisogna cominciare dalla scuola e dalla prevenzione. Bisogna dare forza a chi sul territorio contrasta – spesso silenziosamente – la violenza. Finanziare in modo continuativo e certo i centri antiviolenza, realtà che spesso sono eroiche per la precarietà nella quale – nonostante tutto – continuano ad operare. Perché nei paesi e nei luoghi dove è stato possibile seguire le linee guida e operare con continuità le cose sono davvero migliorate. Ci sono i numeri che lo dimostrano.
Un’altra cosa importante è raccontare le storie. “Ferite a morte” (libro e spettacolo teatrale, ndr) nasce proprio dal desiderio di affrontare la questione in modo diverso da quanto accade nei convegni o in altri momenti istituzionali, rivolti a chi già sa. Abbiamo provato a usare la forza della drammaturgia e del teatro, a fare entrare tutto questo dal cuore e dalla pancia, con forza e ironia. A differenza della “cronaca” che tratta e racconta le donne come fossero solo un “corpo” ormai senza vita. Con “Ferite a morte” la reazione è stata unanime: uomini e donne si sono riconosciuti in queste narrazioni. In tutto il mondo. Perché purtroppo cambiano la latitudine e la longitudine ma la cultura patriarcale è diffusa ovunque.
Questo libro è un “cortocircuito” per iniziare a riflettere. La sua grande forza è che ci fa capire in modo esemplare che non si può più fare finta di nulla, che si deve agire, perché la guerra può arrivare a casa.
Serena Dandini è conduttrice e autrice televisiva e radiofonica, ma anche autrice e regista di "Ferite a morte", libro e spettacolo teatrale (www.feriteamorte.it) che ha girato in Italia e nel mondo. Abbiamo raccolto le sue parole