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5 anni di cartoline e Campagne: sbucciare chi sfrutta – Ae 5

Numero 5 – aprile 2000Cinque anni di Campagne avviate dal Centro nuovo modello di sviluppo per costringere le multinazionali a rispettare i diritti sindacali minimi. Mentre “Equonomia” confluisce in “AltrEconomia” qui facciamo il bilancio dell'attività del Centro. A cominciare dalle…

Tratto da Altreconomia 5 — Aprile 2000

Numero 5 – aprile 2000

Cinque anni di Campagne avviate dal Centro nuovo modello di sviluppo per costringere le multinazionali a rispettare i diritti sindacali minimi. Mentre “Equonomia” confluisce in “AltrEconomia” qui facciamo il bilancio dell'attività del Centro. A cominciare dalle banane. Quello appena trascorso è stato un decennio di passione per i braccianti del Centro America che lavorano nelle piantagioni di banana. Da sempre sfruttati, umiliati e offesi, la loro condizione si è fatta più precaria a causa di un contesto commerciale internazionale all'insegna dell'instabilità.
Nei primi anni Novanta c'è stata quella che potremmo definire la fase dell'euforia commerciale per l'industria della banana, con due importanti novità: da una parte la caduta dei regimi comunisti che ha fatto intravedere un mercato vergine tutto da conquistare; dall'altra la compiuta unificazione dell'Unione Europea, che ha fatto pensare di poter smantellare il sistema di quote che penalizza le banane provenienti dal Centro America a favore di quelle provenienti dalle ex-colonie europee dell'Africa e dei Caraibi.
In vista della scorpacciata, le multinazionali hanno deciso di aumentare la produzione e in Centro America hanno spazzato via migliaia di ettari di foresta per fare posto a nuove piantagioni. Il che ha significato, per migliaia di piccoli contadini, perdere la terra.
In teoria la corsa verso l'espansione produttiva avrebbe dovuto ridurre la disoccupazione e avrebbe dovuto accrescere il potere contrattuale dei lavoratori, ma le cose sono andate diversamente perché le multinazionali hanno preferito assumere immigrati clandestini. Il fenomeno è stato particolarmente accentuato in Costa Rica dove sono arrivati centinaia di migliaia di immigrati dal vicino Nicaragua. Per paura di essere denunciati e rispediti indietro, non hanno mai reclamato diritti e hanno accettato di lavorare per un tozzo di pane. Molti di loro sono stati addirittura utilizzati per sostituire i lavoratori in sciopero. L'euforia commerciale non è però durata a lungo perché, già a partire dal 1994, le multinazionali si sono accorte di aver fatto male i conti. L'Europa dell'Est, infatti è attraversata da un profondo malessere sociale e non è mai diventata quel mercato che Chiquita, Doll e Del Monte sognavano.
Quanto all'Unione Europea, invece di uniformare il mercato all'insegna della deregolamentazione, lo ha reso uniforme estendendo a tutti i Paesi membri il regime preferenziale per l'importazione di banane provenienti dai Paesi africani e caraibici.
Questo in particolare ha suscitato le ire delle multinazionali, soprattutto di Chiquita, che, fra tutte, è quella che produce quasi esclusivamente in America Centrale. Chiquita si è appellata al governo degli Stati Uniti per trascinare l'Unione Europea di fronte alla santa inquisizione dell'Organizzazione mondiale del commercio per violazione delle sacre leggi liberiste. La manovra è riuscita e lo scorso anno sono arrivate la condanna dell'Unione Europea e le ritorsioni commerciali degli Usa.
È difficile spiegare in due parole la regolamentazione europea, qui forse basta ricordare che essa consente di mantenere le importazioni dai singoli Paesi produttori di banane entro limiti prefissati. Il che produce due effetti positivi: stabilizza la produzione e attenua la concorrenza.
Questo nuovo contesto ha giovato alle organizzazioni sindacali, che hanno ottenuto importanti risultati anche grazie alla collaborazione con Euroban, il coordinamento di associazioni europee che si occupano di diritti umani e difesa dell'ambiente nel settore della banana.
Una delle battaglie riuscite è stata quella contro Del Monte, organizzata per porre fine al suo comportamento antisindacale (vedi riquadro a pag. 5).
Con l'aiuto di alcune organizzazioni inglesi, che hanno mobilitato i consumatori, il sindacato bananiero del Costa Rica nel novembre 1997 è riuscito infatti a far firmare a Del Monte uno storico accordo per il rispetto delle libertà sindacali.
Incoraggiati dal successo nei confronti di Del Monte, i sindacati del Centro America hanno quindi deciso di concentrarsi su Chiquita per giungere alla firma di un accordo che non valesse per un solo Paese, ma per tutto il Centro America. E anche questa volta si è cercato il decisivo coinvolgimento dei consumatori europei e statunitensi.
Siamo nel marzo 1999 e anche in Italia parte la campagna “Il bastone e la banana”. Inizialmente la campagna dà buoni risultati: Chiquita accetta di incontrarsi con i sindacati, viene fissato un ordine del giorno. Poi tutto si arena, perché a livello internazionale sta cominciando a soffiare un altro vento che consiglia le multinazionali di tornare all'arroganza.
Del Monte è in testa al contrattacco. Nel giugno 1999 in Costa Rica licenzia 120 lavoratori la metà dei quali attivisti sindacali. Quando i sindacati informano le associazioni europee dell'accaduto, la multinazionale reagisce moltiplicando le espulsioni di lavoratori e proponendo ai licenziati di essere sì riassunti ma con un salario decurtato del 25-30 per cento e con la sospensione di altri benefici come la fornitura gratuita dell'alloggio e della corrente elettrica. Idem in Guatemala.
Il 27 settembre c'è il licenziamento di 900 braccianti che lavorano in tre diverse piantagioni date in appalto ad impresari locali. Nell'ottobre la multinazionale supera ogni limite: 200 uomini armati fino ai denti circondano l'edificio dove 1000 dipendenti Del Monte stanno tenendo una riunione sindacale. Gli uomini entrano nella sede e intimano a tutti i presenti di sospendere la loro attività se vogliono avere salva la vita.
Gli ispettori delle Nazioni Unite hanno dichiarato che questa aggressione costituisce la più grave violazione dei diritti umani in Guatemala dopo l'uccisione del vescovo Gerardi.
Del Monte si difende attribuendo il tutto alla crisi che ha investito il settore bananiero. “Il nostro problema oggi, è come rimanere sul mercato. La battaglia si è fatta dura e non ci sono più spazi per i metodi gentili” confida un dirigente Del Monte ad una Organizzazione non governativa inglese.
In effetti nel corso del 1999 il prezzo delle banane è sceso di circa il 20 per cento.
Ma il fatto non è casuale. Piuttosto è il risultato di un contesto mondiale ormai totalmente sottomesso alle regole del libero mercato il cui unico obiettivo è di far vincere chi riesce a vendere al prezzo più basso. Ma siccome i miracoli non li fa nessuno, di fatto questa battaglia la vince chi sfrutta di più i lavoratori e chi si preoccupa meno dell'ambiente. Non a caso si stanno chiudendo le piantagioni nei Paesi del Centro America dove il sindacato è più forte e i lavoratori più garantiti, mentre si sta espandendo la produzione in Ecuador dove lo scenario è dominato da migliaia di braccianti e piccoli contadini soggiogati da alcuni grandi esportatori, il principale dei quali è Noboa che vende anche in Italia col marchio Bonita.
In Ecuador, per ogni scatola di banane (18 chilogrammi) i contadini ricevono appena 1 dollaro e ciò consente di applicare un prezzo di vendita all'esportazione di 2,20 dollari contro i 5 pagati sulle banane del Costa Rica.
Le tre grandi multinazionali americane (Chiquita, Doll e Del Monte) hanno giurato che non ricorreranno più del solito alle banane dell'Ecuador, ma Del Monte ha già fatto sapere che intende aprire nuove piantagioni in Brasile dove i costi di produzione sono altrettanto bassi.
Muoversi in questa tormenta è diventato molto difficile, anche perché le stesse multinazionali stanno riportando delle ferite che fanno cambiare loro i connotati. Nel 1999 Chiquita ha chiuso in perdita, e per pagare i debiti, la famiglia Lindner, maggiore azionista, ha venduto il 40 per cento della proprietà ad un consorzio panamense (non si sa da chi formato).
Prima di tutto, quindi, bisogna rifare il punto della situazione. Per questo il sindacato del Centro America, d'accordo con la segreteria internazionale del sindacato degli alimentaristi e con Euroban, ha deciso di organizzare un incontro con le tre multinazionali per conoscere le loro posizioni. Solo dopo, sarà possibile definire una strategia comune per continuare le Campagne di pressione.

Solidarismo split
Del Monte scivola sulle banane del Costa Rica
Anche se riconosciuto da tutti come uno dei Paesi più democratici e garantisti dell'America Latina, nelle piantagioni del Costa Rica la libertà sindacale è fortemente compromessa dall'atteggiamento delle multinazionali che non ricorrono solo alla repressione, ma anche ad una strategia più subdola che è il sostegno al “solidarismo”.
Il solidarismo è un movimento nato in Costa Rica nel 1962 su un substrato ideologico pensato da Eduardo Aguirre, sacerdote originario di Cuba. La sua proposta fu accolta ufficialmente dall'arcivescovo di S.José, Carlos Humberto Rodriguez Quiros, che fondò una scuola di solidarismo intitolata a Papa Giovanni XXIII. L'idea di fondo del solidarismo è che padroni e lavoratori non devono sentirsi parti avverse, ma cooperanti di uno stesso progetto che ha come obiettivo la crescita e la difesa dell'impresa. Perciò i lavoratori aderenti al movimento solidarista si vantano di non fare scioperi e di non provocare conflitti di lavoro, ma di risolvere tutti i loro problemi all'interno di commissioni aziendali di cui fanno parte rappresentanti dei lavoratori e della direzione padronale.
In realtà i rappresentanti dei dipendenti sono spesso uomini di fiducia del padrone che già occupano posti chiave nell'azienda.
Nelle imprese vige così un clima paternalista, clientelare e, insieme, autoritario che riesce a creare nei lavoratori una mentalità di passività e sottomissione. Ogni sopruso viene fatto passare come una necessità dell'impresa che va accettata con spirito di sacrificio.
Per indorare la pillola, il solidarismo organizza dei servizi, a livello aziendale, che possono comprendere attività sportive e culturali, la mensa e lo spaccio.
Inoltre organizza dei fondi aziendali paragonabili ai fondi liquidazione che sono utilizzati per prestiti ai lavoratori e all'impresa.
Inutile dire che il solidarismo è molto apprezzato dai padroni. Per questo tentano di convincere i lavoratori ad aderire al movimento, ora decantando i vantaggi derivanti dai servizi offerti dal solidarismo, ora creando un clima di rappresaglia verso tutti coloro che oppongono resistenza. Per questo il solidarismo è cresciuto molto e nel solo Costa Rica conta 120 mila aderenti e un capitale di circa 300 milioni di dollari.
Le spese di questa situazione le ha fatte il sindacato indipendente che ha perso terreno in tutti i settori, primo fra tutti quello bananiero.
Per molti anni è rimasto testimone impotente del suo lento declino. Poi ha deciso di reagire. Fra tutte le multinazionali bananiere, quella che più si è data da fare per fare crescere il solidarismo nelle proprie piantagioni è stata Del Monte. Per questo, quando il sindacato del Costa Rica ha stabilito che era ora di darsi da fare, ha deciso di concentrarsi su Del Monte. Ma non ha voluto agire da solo. Consapevole di non avere abbastanza forza, ha chiesto la collaborazione dei consumatori del Nord. Considerato che la sede europea di Del Monte è in Inghilterra, la scelta del partner è ricaduta sul World Development Movement che, tra tutte le organizzazioni europee, è quella che ha maggiore esperienza in Campagne.
I preparativi sono durati oltre un anno durante il quale il sindacato costaricense ha cercato di ricreare delle roccaforti all'interno delle piantagioni. Poi, nella primavera 1997, quando le condizioni sono state favorevoli, è scattata l'offensiva finale sui due fronti: quello sindacale in Costa Rica e quello dei consumatori in Inghilterra.
Ancora una volta la strategia scelta dai consumatori è stata l'invio di cartoline che esprimevano condanna e esortavano la multinazionale ad accogliere le richieste.
Ad agosto Del Monte ha fatto sapere di aver ricevuto il messaggio e a dicembre ha firmato un accordo con il sindacato del Costa Rica attraverso il quale si è impegnata a nuove relazioni sindacali.



Subappalti all'Equatore

L'industria di banane in Ecuador è di vaste dimensioni sotto ogni profilo. Impiega circa 383 mila lavoratori, ossia il 9,6 per cento della forza lavoro attiva di tutto l'Ecuador. Tuttavia, le statistiche ci informano che nella fascia della costa del Pacifico, dove si concentra l'industria della banana, c'é un forte tasso di disoccupazione. Nei villaggi attorno al porto di Guayapil, migliaia di persone si radunano nel centro del paese alle 5 del mattino, nella speranza di poter lavorare alla giornata nelle piantagioni di banane, ma la maggior parte di loro torna a casa a mani vuote.
Il ricorso massiccio al subappalto è una delle strategie utilizzate dall'industria bananiera per impedire l'organizzazione sindacale. Secondo la legge ecuadoregna si può formare un sindacato aziendale solo se vi aderiscono più di 30 persone, per questo le singole fasi di lavoro sono appaltate a unità produttive molto piccole.
In Ecuador, a differenza del Centro America, l'industria della banana non è controllata dalle tre grandi multinazionali americane. Qui il boss è Alvaro Noboa, un imprenditore locale molto potente che ha forti legami con gli ambienti politici.



Armi segrete? Le cartoline

L'ultima Campagna, in ordine di tempo, lanciata dal Centro nuovo modello di sviluppo è “Diciamo no all'uomo Del Monte”. Partita lo scorso novembre ha conosciuto momenti di grande tensione ma ha prodotto, come si racconta nell'articolo qui sotto, importanti risultati. Sotto accusa le condizioni dei lavoratori della piantagione di ananas di Thika in Kenya. Dopo la banana l'ananas è il frutto tropicale più consumato in Europa. A Thika in una piantagione di 5 mila ettari lavorano 4-5 mila braccianti che producono 300 mila tonnellate l'anno di ananas: il 98 per cento del prodotto è trasformato e inscatolato nella fabbrica al centro della piantagione (altri 2 mila lavoratori); oltre al marchio Del Monte (controllato dalla Cirio di Sergio Cragnotti), le scatole escono col marchio Coop, Mission, Soleado, Tesori dell'arca.
La situazione peggiore è quella dei lavoratori avventizi: in un'ora di lavoro guadagnano 12-13 scellini kenyoti, meno addirittura del minimo stabilito dalla legge del Kenya (14,40 scellini).
Aderendo alla Campagna, migliaia di italiani hanno spedito le cartoline “Diciamo no all'uomo Del Monte” rispettivamente a Cirio, Coop e Associazione calciatori (la Lazio è sponsorizzata guarda caso dalla Del Monte). In seguito a ciò Coop e Cnms hanno inviato a Thika 2 distinte ispezioni per verificare se e come sono rispettati i 5 standard sociali della famosa Social Accountability, la SA 8000 (alla quale Coop ha aderito e che, dunque, devono essere rispettati anche dai suoi fornitori): la libertà di associazione e contrattazione; l'assenza di lavoro minorile; l'assenza di lavoro forzato, il salario degno e in grado di soddisfare le esigenze minime della vita; il rispetto della sicurezza e della salute dei lavoratori.



Buone notizie: Mr. Ananas dice sì
Quando abbiamo lanciato la Campagna Del Monte, il 1 novembre 1999, non pensavamo che potesse avere un successo così rapido. Le strategie vincenti sono state due: la pressione su Coop, tirata in ballo perché aveva ottenuto la certificazione SA 8000, e un'azione coordinata col sindacato e con la Commissione per i diritti umani del Kenya che hanno tenuto testa a Del Monte localmente. Ma andiamo con ordine. Attorno al 7 novembre, pochi giorni dopo il lancio della campagna, Coop ci informa di voler anticipare un'ispezione nella piantagione di ananas in Kenya che aveva già in programma. Per la precisione l'ispezione c'è stata il 22-23 novembre. La decisione ci sembrava corretta, ma ci pareva importante la contemporanea presenza di un'altra società di certificazione. La richiesta è stata accolta e l'ispezione è stata eseguita contemporaneamente da Bvqi e da Sgs (ispezione commissionata da noi del Centro nuovo modello di sviluppo). Negli stessi giorni il sindacato e la Commissione per i diritti umani del Kenya, hanno organizzato una conferenza stampa a Nairobi per denunciare le pessime condizioni di lavoro e per dare notizia della Campagna internazionale.
Il dibattito è stato piuttosto acceso perché alla conferenza è intervenuto anche il direttore del personale della piantagione che si è scagliato contro i delegati sindacali. La reazione dell'alto dirigente non è stata un gesto di rabbia, ma parte di una strategia di difesa che si basa sull'aggressività e sulla negazione di ogni addebito. Pur di negare, Del Monte è arrivata infatti a dichiararsi vittima di una macchinazione politica orchestrata dalla concorrenza che per l'occasione è individuata nel commercio equo e solidale (!). Questa posizione è sostenuta sia nella conferenza stampa organizzata a Milano il 29 novembre, che in una dichiarazione pubblicata a tutta pagina il 10 dicembre su uno dei principali quotidiani del Kenya. Il 23 dicembre 1999, Coop prende atto che le ispezioni hanno messo in evidenza comportamenti non conformi con la certificazione SA 8000, un modo indiretto per riconoscere che le denunce della Campagna sono fondate. Coop informa anche che Del Monte Italia si è impegnata a migliorare le cose in tre aree: quella dei salari, quella dei pesticidi, con particolare riferimento alla protezione dei lavoratori, e quella delle condizioni abitative ed igieniche.
Chiediamo un incontro con Del Monte ma la multinazionale non desidera vederci. Allora, tramite Coop, chiediamo che il piano di miglioramento venga concordato nei dettagli, non in maniera unilaterale dall'azienda, ma d'accordo con i sindacati del Kenya e con le altre associazioni kenyote che sono coinvolte nella Campagna.
La risposta è positiva e adesso il problema principale è verificare che alle parole seguano i fatti. Con questi risultati raggiunti possiamo considerare chiusa la Campagna di pressione pubblica. Rimane invece tutta l'attività di vigilanza da parte del Centro nuovo modello di sviluppo. Informeremo i nostri lettori sugli sviluppi della vicenda, ma intanto non possiamo fare a meno di dichiarare tutta la nostra soddisfazione per un'azione che si è dimostrata efficace in tempi rapidi. È la dimostrazione che se i consumatori sanno muoversi con intelligenza hanno davvero un grande potenziale.



Marchi giusti: QL+, il trasparente

Seattle, la maggior parte dei manifestanti contro l'Organizzazione mondiale del commercio erano membri del sindacato americano che rivendicavano l'introduzione delle “clausule sociali”. Manifestavano, cioé, affinché nei trattati internazionali venissero introdotte sanzioni commerciali contro quei Paesi che non garantiscono il rispetto di alcuni fondamentali diritti dei lavoratori come le libertà sindacali, l'assenza di lavoro forzato, l'assenza di sfruttamento infantile, la non discriminazione e altri diritti ancora.
Nessuno stupore se ad opporsi all'introduzione delle clausole sociali sono molti governi del Sud del mondo che considerano flessibilità, salari bassi e scarse protezioni sindacali come strumenti per conquistare un qualche spazio sul mercato della produzione (a scapito anche dei diritti e della salute dei propri lavoratori).
Sorprende invece che ad avere una posizione critica nei confronti delle clausole sociali ci siano anche numerose associazioni del Sud e del Nord che da sempre si battono a fianco dei lavoratori più oppressi. Madornale incoerenza? Poca attenzione per le condizioni dei lavoratori del Sud sotto una parvenza di sensibilità?
In realtà chi non pensa ai lavoratori del Sud sono i sindacati del Nord che si preoccupano solo dei posti di lavoro messi a rischio da una struttura produttiva che corre dove più alta è la licenza di sfruttare. Naturalmente non ci pensano neanche i governi del Sud che si preoccupano solo di garantire i privilegi economici delle classi più agiate.
In realtà le associazioni non stanno né con i sindacati né con i governi perché né gli uni né gli altri si pongono il problema dei lavoratori del Sud.
Se questo fosse il vero obiettivo, si dovrebbe anche dire che i provvedimenti da assumere dovrebbero essere ben più consistenti e che è ipocrita parlare di clausole sociali finché si mantengono storture e squilibri. Per eliminare davvero lo sfruttamento nel Sud del mondo, bisognerebbe cominciare con l'annullare il debito che costringe i Paesi del Sud ad accrescere le proprie esportazioni indipendentemente dalle condizioni sociali e ambientali di lavoro.
Bisognerebbe poi garantire prezzi stabili ed equi ai produttori del Sud. Per finire bisognerebbe mettere in atto un colossale piano di cooperazione per garantire ai Paesi del Sud alcuni servizi fondamentali come la scuola obbligatoria, la sanità, l'acqua potabile e la creazione di strutture produttive di base per mettere in moto uno sviluppo economico al servizio della gente.
Nel frattempo non bisogna dimenticare anche un altro punto “di attacco” che è rappresentato dalle imprese che esportano la produzione dove i lavoratori sono più sfruttabili e fanno di tutto affinché la situazione non cambi perché dallo sfruttamento del lavoro dipende il loro guadagno. Se i consumatori non comprassero più ciò che è stato prodotto in condizioni inaccettabili sarebbero costrette a cambiare comportamento. Ma per far questo è necessario che si conosca dove e come sono state prodotte le merci, dai jeans al caffé.
È a partire da considerazioni come queste che è nata in Italia la Campagna “Acquisti trasparenti” e la richiesta di una legge ad hoc. Tre i punti principali: la trasparenza sulle condizioni sociali e ambientali di produzione, l'istituzione di un'Autorità di vigilanza con poteri di indagine e l'istituzione di un marchio per la qualità del lavoro.
La petizione popolare a sostegno degli “Acquisti trasparenti” ha raccolto 160.000 firme; nel corso del 1999 è stato poi fatto un altro passo avanti: la nostra richiesta è stata trasformata in proposta di legge grazie all'iniziativa di alcuni parlamentari.
Capita spesso che trascorra molto tempo dalla presentazione dei disegni di legge al momento in cui inizia il loro esame. Ma alla Camera l'esame della nostra proposta è iniziato quasi subito perché le richieste di “Acquisti trasparenti” sono state abbinate ad un altro disegno, sul lavoro minorile, già approvato al Senato. Un disegno che noi contestiamo, ma che ha avuto il pregio di accelerare il cammino della nostra proposta. Dunque, mentre al Senato siamo ancora alla fase iniziale, alla Camera le cose stanno procedendo con celerità e la X° Commissione Attività produttive ha già incaricato l'onorevole Ruggero Ruggeri (popolari) di studiare le proposte giunte sull'argomento per stendere un nuovo testo che faccia la sintesi fra il testo di legge sul lavoro minorile approvato al Senato e gli altri cinque disegni depositati, due dei quali relativi alla nostra proposta.
La fase che stiamo attraversando è determinante per ottenere la legge che noi auspichiamo. Va sottolineato con forza che se non facciamo sentire la nostra voce rischia di passare una brutta legge di facciata che autorizza le imprese all'autocertificazione, ossia alla pubblicità ingannevole legalizzata.
Per questo abbiamo deciso di rilanciare la Campagna “Acquisti trasparenti” chiedendo a tutti coloro che hanno firmato la petizione di rinnovare la loro pressione sul Parlamento. A tale proposito abbiamo preparato due diverse cartoline da sottoscrivere e da spedire, una alla X° Commissione Attività produttive della Camera e una al senatore Nicola Mancino, presidente del Senato. Alla Camera chiediamo di stendere un progetto di legge unificato che accolga tutte le nostre richieste; al presidente del Senato chiediamo di avviare, con urgenza, l'esame del disegno di legge presentato dal senatore Ripamonti.



La staffetta. Da un'”Equonomia” all'”Altra”
Inizialmente si chiamava “I care”, poi abbiamo dovuto cambiargli nome perché era un titolo già stato usato da altri. Stiamo parlando di “Equonomia” che ha vissuto per tre anni dal 1997 al 1999. La creammo più per bisogno che per scelta. Eravamo nel bel mezzo della campagna Nike e dovevamo scrivere a tutti i partecipanti (circa 6.000 persone) come stavano andando le cose. Un rapido conto ci fece capire che avremmo speso una fortuna in francobolli. Allora perché non usare la stessa cifra per stampare qualcosa di più voluminoso di una semplice lettera e spedirlo come rivista a tariffa agevolata? Così partì l'avventura. Per la verità altre volte in passato avevamo accarezzato l'idea di avere una rivista tutta nostra, soprattutto per dare continuità al lavoro intrapreso con la “Guida al consumo critico”. In effetti mancava un giornale che desse informazioni sul comportamento delle imprese e che desse voce alle iniziative di economia alternativa avviate con lo scopo di costruire un'economia di giustizia. Quando fummo costretti a cambiare nome alla nostra rivista, dopo lungo pensare, optammo per “Equonomia” che pur non esprimendo tutti i concetti che ci stanno a cuore, aveva il pregio di comunicare in maniera inequivocabile che dobbiamo smettere di seguire il mito della ricchezza e dedicarci invece alla progettazione della giustizia. Volevamo sottolineare che oltre a porre l'equità al centro delle nostre aspirazioni, dobbiamo cominciare a studiarla, progettarla, diventarne degli esperti. Ecco allora la provocazione del nostro titolo: riconvertiamo le facoltà di economia in facoltà di equonomia, riconvertiamo gli economisti in equonomisti, riconvertiamo noi stessi da esseri economici ad essere equonomici. Come consumatori potremo contribuire a questa rivoluzione se sapremo essere critici fino in fondo e se sapremo avviarci sempre di più lungo la strada della sobrietà. Confidiamo che “AltrEconomia” sappia continuare a farsi portavoce di questo messaggio.


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