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Opinioni

Lo sciopero che gli autori italiani non faranno mai


Ugo Ripamonti è autore televisivo. Ha lavorato per Mediaset e La7. Gli abbiamo chiesto di commentare lo sciopero degli autori televisivi statunitensi che ha bloccato le produzioni tv dall’inizio di novembre.

Stamattina ho ricevuto una telefonata di mia madre, con toni molto concitati e, giustamente preda di un certo allarmismo, ha farneticato qualcosa riguardo a uno sciopero e a un dottore che non può più vedere. Il mio qualunquismo mattutino mi ha fatto concludere la telefonata con un sempreverde “siamo alle solite… la sanità italiana…” In realtà mia madre si riferiva a un altro sciopero: quello degli sceneggiatori americani. E il dottore che non può vedere non è il suo podologo, ma il dottor House, una delle serie tv bloccate dalle proteste della WGA, la Writers Guild of America.

di Ugo Ripamonti

Gli autori americano protestano principalmente per la mancata remunerazione dei diritti relativi ai cosiddetti new media, cioè internet e cellulari. Così come accade per la musica, anche negli audiovisivi le nuove tecnologie stanno radicalmente modificando il mercato. La tv generalista, quella che conosciamo noi in Italia, tende a scomparire sostituita da nuove forme di fruizione dei prodotti, molto più personali e interattive, come le serie tv in DVD, youtube e i film scaricabili sui telefonini. Questi nuovi mercati sono ancora vergini dal punto di vista della gestione dei diritti d’autore e le case di produzione americane (vere e proprie multinazionali come la Viacom e la Sony) non vogliono dividere con gli autori i nuovi introiti.

Mia madre mi chiede se anche gli autori italiani sciopereranno. Sarebbe più facile vedere i lavoratori della Corea del Nord battersi per le 35 ore. La proporzione è simile. Negli Stati Uniti la categoria discute sui diritti dei nuovi media, mentre da noi non si riescono a prendere i diritti neppure da alcuni canali generalisti, coma LA7, che inspiegabilmente non paga la Siae agli autori. Gli autori italiani non sciopereranno mai anche perché ciò che manca è la controparte, il sistema. Negli Stati Uniti la tv e il cinema sono delle vere e proprie industrie. Esistono università, percorsi formativi, associazioni di categoria. I rapporti tra chi scrive e chi produce sono regolati da leggi precise, discusse e condivise che ogni vero campo professionale dovrebbe avere. Negli Stati Uniti esiste un sindacato (il primo importante sciopero della gente di spettacolo fu indetto nel 1960 dall’attore Ronald Reagan, divenuto poi una delle figure più antisindacali del secolo), mentre da noi manca proprio la categoria. Le contrattazioni sono sempre a livello personale. E più che un’industria la tv italiana sembra un condominio in cui ci si conosce tutti e i contratti si discutono al bar (ma che spesso si firmano a trasmissione finita).

Non può esserci una protesta perché gli autori nella tv italiana sono perfettamente sostituibili. E qui sta il punto. Un autore vende la sua capacità, il suo talento (non che ne serva in tv…), ma i produttori tv del talento non se ne fanno nulla. La perdita di qualità delle trasmissioni non è un rischio che li spaventa, quindi perché non prendere un autore inesperto che costa meno? Il sistema televisivo fa il resto: non c’è concorrenza quindi a fare le solite trasmissioni sono le solite case di produzioni per i soliti due poli e mezzo. E chi non è d’accordo se ne può andare, dimostrando che il duopolio ritrova fedele trasposizione nella dicotomia minestra – finestra. Negli Stati Uniti esiste un vero e proprio mercato delle idee, in questi giorni la Fox sta cercando di forzare il blocco degli scrittori, affidando ad autori non iscritti alla WGA i copioni di Family Guy, un cartoon stile Simpson, ma già solo la proposta ha scatenato enormi polemiche.

Chi gli spiega che da noi una strapagata conduttrice tv ha infilato nello staff il suo nuovo fidanzato tunisino, conosciuto in un villaggio turistico?

Una piccola nota: vedendo le immagini dei picchetti mi aspettavo qualcosa di più. Le più fervide menti comiche del pianeta non hanno partorito neppure uno slogan divertente. Ma forse, giustamente, sono in sciopero anche sugli slogan

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