Ambiente
L’Europa a doppio senso
C’è un’Europa che si impone sul clima ed una che procede sui trattati di libero scambio. Due diplomazie che non si parlano o, forse, si parlano fin troppo ma dietro le quinte. E l’apparenza è uno strabismo diplomatico, dove la mano destra apparentemente si disinteressa di quello che fa la sinistra. La conseguenza è tanta retorica. Ed uno sviluppo centrato sui mercati.
Ci sono due Europe, o forse di più. Sono i diversi volti che i nostri diplomatici assumono a seconda delle circostanze, dei momenti istituzionali: linguaggi, concetti, obiettivi ognuno fine a se stesso, senza collegamenti trasversali. Non è una politica una e trina, è un’Europa incoerente o, almeno, attenta a tutelare alcuni interessi a discapito di altri, anche se il quadro d’insieme può risultare stonato.
Solo pochi giorni fa, nell’emirato del Qatar, la Commissaria al Climate Action Connie Hedegaard ha rilanciato l’immagine di un’Unione paladina del clima, ultimo baluardo di un Protocollo di Kyoto ormai reso parìa dai più, e decisa a dare il suo contributo di un futuro low-carbon.
Sono bastati pochi giorni e l’apparente sostenibilità del vecchio continente evapora davanti al voto dell’Europarlamento che a Strasburgo ha dato il via all’ultimo trattato di libero scambio, l’ennesimo, questa volta con Colombia e Perù. Sono passati più di sei anni da quando la Commissione Europea ha scelto di applicare pedestremente "Global Europe: competing in the world", la strategia di espansione commerciale basata su due fronti, il multilaterale dentro l’Organizzazione Mondiale del Commercio e gli accordi bilaterali di libero scambio (tra i più conosciuti quelli con l’India, la Corea del Sud, i Paesi del Maghreb e, in dirittura di arrivo, quello transatlantico con gli Stati Uniti).
Con 486 voti a favore, 147 contrari e 41 astensioni il Parlamento di Strasburgo ha esercitato il suo nuovo diritto di ratifica sugli accordi commerciali negoziati dalla Commissione, questa volta sul trattato di libero scambio con Colombia e Perù concluso nel 2010 e firmato tra la Commissione di Bruxelles ed i Governi Bogotà e Lima lo scorso 26 giugno.
Il prossimo passo spetta ai Paesi membri dell’UE ed ai loro Parlamenti: basterebbe anche un solo voto contrario per bloccare la procedura.
Un accordo di liberalizzazione che, aldilà della retorica delle imprese europee raccolte in BusinessEurope, potrebbe avere impatti molto pesanti su ambiente e clima. Secondo il rapporto "EU-Andean Trade Sustainability Impact Assessment", una ricerca finanziata dal DG Trade della Commissione Europea e pubblicata nell’ottobre del 2009, il rischio di conseguenze insostenibili sulle foreste c’è tutto. "Come risultato" si legge a pagina 89 del rapporto, "l’accordo commerciale proposto potrebbe potenzialmente aumentare il tasso di deforestazione, in mancanza di accordi istituzionali adeguatamente strutturati, dal momento che l’industria è destinata ad aprirsi maggiormente agli investimenti stranieri". Investimenti stranieri che potrebbero aggravare situazioni di impatto ambientale e sociale già al limite della tolleranza, come nel caso della Inter-Oceanic Highway (o Carretera Interoceánica), 2600 chilometri che uniscono la costa brasiliana con i porti pacifici del Perù. Più di due miliardi e settecento milioni di dollari per rendere l’America Latina "in grado di inserirsi in modo più competitivo nell’economia globalizzata", parola dell’ex presidente brasiliano Lula. Investimenti europei in quest’ambito, ricorda l’Assessment, potrebbero aumentare ulteriormente il tasso di deforestazione.
Degno di nota l’andamento delle emissioni di CO2, che a seconda dello scenario previsto (liberalizzazione modesta o ambiziosa, breve o lungo termine) mostrerebbero un picco più o meno deciso, ma non certo una diminuzione. E la risposta non arriverà certamente da una certa Green economy: lo scorso 8 maggio a Bogotà, durante la conferenza “Sustainability Energy in Colombia” è stato presentato il rapporto omonimo sviluppato dalla collaborazione tra Ministero colombiano delle miniere e dell’energia, il Banco interamericano di sviluppo e il Governo giapponese, in cui la Colombia mostra le sue carte per poter diventare tra i principali produttori ed esportatori di biofuel (considerando già i 4 milioni di ettari a palma da olio e i quasi 5 milioni a canna da zucchero). Una crescita nella produzione già incentivata dal recente trattato di libero scambio sottoscritto con gli Stati Uniti e che potrà incrementare ancora di più con l’apertura del mercato all’Unione europea. A discapito anche di zone forestali, con conseguente perdita di biodiversità e rilascio di CO2.
Un problema che si sarebbe potuto evitare se la direttiva sui biocombustibili appena approvata avesse vietato l’utilizzo di quelli di prima generazione, derivante da colture alimentari (cereali, amido, zucchero e oli) e non ne avesse semplicemente limitato l’utilizzo.
Ma l’obiettivo è ampliare i mercati e dare certezze agli investitori così che si possano avere assicurazioni sul ritorno dell’investimento: nomi come Bayer, Basf o Louis Dreyfus sono i più interessati nella possibilità di investire direttamente nella produzione di biocarburanti, secondo il rapporto di Friends of the Earth International "EU Free Trade Agreements in Latin America: Worsening Climate Change". E il trattato di libero scambio assicura pari trattamento e non discriminazione, come insegna l’Organizzazione Mondiale del Commercio, ed un ambiente d’investimento più prevedibile.
Che poi questo impatti o meno sul clima, poco importa. La domanda è se la Commissaria Connie Hedegaard, nelle sue fillippiche alla COP in difesa delle prossime generazioni, tutto questo se lo ricorda.