Opinioni
Senza trasparenza, nessuna giustizia per la vittime del rogo di Karachi
L’11 settembre quasi 300 lavoratori morirono per l’incendio di una fabbrica tessile in Pakistan, la Ali Enterprises. Solo un mese prima l’impresa aveva ottenuto la "prestigiosa" SA8000: l’ente italiano Rina "certificava" la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. A un mese dalla tragedia, però, non si è fatta luce sulla vicenda né sono stati resi pubblici i nomi dei fornitori
Non c’è stato scampo per i quasi 300 lavoratori che lo scorso 11 settembre hanno tentato di salvarsi dalle fiamme che lambivano i loro corpi al lavoro alla Ali Enterprises, azienda di Karachi in Pakistan che produceva jeans per l’Europa e gli Stati Uniti. Erano passate le sei di sera quando nella fabbrica di quattro piani è scoppiato l’inferno che ha spinto decine di lavoratori a cercare una via d’uscita, che non c’era. Le porte erano tutte bloccate, quella di accesso al tetto dalle scale del retro e quella del garage, unica uscita della fabbrica secondo le dichiarazioni dei sopravvissuti. Pile di prodotti chimici, materiali combustibili e prodotti tessili bloccavano ogni via di fuga. I lavoratori sono morti esalando i fumi tossici ancora più letali per la mancanza di vie d’uscita, lasciando corpi bruciati difficili da riconoscere. Molti si sono feriti gravemente gettandosi dalle finestre, lottando contro il tempo per abbattere con ogni mezzo le sbarre di ferro che li separavano dal vuoto. La causa della tragedia risiede molto probabilmente in un guasto elettrico, riconducibile al quadro cronico di totale trascuratezza dei sistemi di sicurezza e delle leggi che affligge il sistema produttivo in Paesi come il Pakistan.
Eppure la Ali Enterprises era un’azienda florida, almeno per il proprietario Shaid Bhaila, influente imprenditore membro della Pakistan Readymade Garments Manufacturers and Exporters Association (PRGMEA), che poteva contare su un fatturato annuo di 5 miliardi di rupie, vale a dire 40 milioni di euro. Ciononostante pare non abbia avuto dubbi Mr. Bhaila, quando ha deciso di reclutare altri 500 lavoratori senza lettera di assunzione e senza garantire l’iscrizione al fondo di assicurazione sociale (EOBI) che avrebbe garantito alle famiglie delle vittime un risarcimento economico pari a 600mila Rupie, di cui 300mila a carico dello stesso imprenditore. E avrebbe anche consentito l’accesso alla pensione. Invece bisognava correre, per completare le consegne entro Natale e non pagare extracosti per le spedizioni via area.
E poi farsi una buona immagine, da esportare insieme ai jeans forse anche sabbiati secondo voci di corridoio, attraverso una certificazione in grado di soddisfare le richieste delle multinazionali in materia di sicurezza e standard sociali. Si, perché questa meritevole e inappuntabile azienda, dove hanno trovato la morte durante lo straordinario serale probabilmente obbligatorio centinaia di giovani lavoratori e lavoratrici sotto i 35 anni, era stata appena certificata dal RINA (Registro Italiano Navale), ente italiano accreditato dal sistema SAI.
Ad agosto 2012 infatti, la Ali Enterpises riceveva la “prestigiosa” certificazione SA8000 ad attestare la sua conformità agli standard internazionali in nove aree sensibili, tra cui salute e sicurezza, lavoro infantile e salari minimi garantiti. Certificazione sospesa all’indomani della tragedia quando il RINA, alle prese con le richieste provenienti dai sindacati e dagli attivisti delle ong impegnate nella difesa dei diritti umani, si è sentita in dovere di scrivere sul sito che nei rapporti ispettivi "gli estintori e i secchi di sicurezza antincendio erano disponibili in quantità sufficiente. […] gli estintori erano visibili e accessibili a tutti i lavoratori. L’accesso agli estintori e ai passaggi che conducono alle uscite era libero da qualsiasi tipo di ostruzione. Le uscite primarie e le uscite di emergenza sono sbloccati mentre i dipendenti sono all’interno struttura”.
Di fronte all’immane tragedia e alle condizioni strutturali della fabbrica alla radice dell’incidente, viene spontaneo chiedersi come sia stato possibile per la Ali Enteprises essere ammessa al processo di certificazione etico sociale più diffuso al mondo. Forse perché il governo pakistano ha avviato un importante programma di sostegno per le imprese nazionali che ha portato il paese ad essere il quinto al mondo per numero di certificati SA8000. Soldi pubblici per ripulire l’immagine di 250 imprese nazionali affinché possano entrare a pieno titolo nel mercato globale. Si tratta di più di 1 milione di euro messi a disposizione per sussidiare in parte le aziende in certificazione e in parte gli enti accreditati che ricevono i loro compensi solo quando la certificazione viene effettivamente concessa. Un meccanismo rischioso e collusivo, che delega ai sistemi di certificazione commerciale il compito di garantire l’applicazione delle leggi e delle convenzioni internazionali, mentre si smantellano i sistemi di controllo pubblico come gli ispettorati del lavoro (le cui ispezioni obbligatorie sono state bandite nel 1997 grazie al pressing degli industriali) e si ostacola la formazione di sindacati liberi. In una delle metropoli più grandi del mondo con 18 milioni di abitanti e migliaia di fabbriche pericolose come la Ali Enteprises, va aggiunto che secondo le ong locali gli imprenditori trattano le questioni relative alla salute e alla sicurezza nei luoghi di lavoro come un problema collaterale da risolvere con tangenti e corruzione. Con 11 miliardi di dollari di esportazioni all’anno, se lo possono permettere.
A pochi giorni dalla chiusura del Forum italiano sulla cooperazione, dove è stato celebrato il ruolo delle imprese come fattori di sviluppo internazionale, viene spontaneo portare il caso pakistano quale esempio emblematico di tale declinazione. È passato quasi un mese dal terribile incendio ma nessun marchio internazionale che si approvvigionava dalla Ali Enterprises e probabilmente vantava di utilizzare fornitori certificati SA800, ad eccezione della tedesca KIK, si è fatto avanti per riconoscere il proprio ruolo e per offrire supporto alle famiglie delle vittime. Per questa ragione organizzazioni internazionali come Clean Clothes Campaign, Maquila Solidarity Network, Workers Rights Consortium e International Labor Rights Forum hanno chiesto a SAI e RINA di mettere immediatamente a disposizione tutte le informazioni in loro possesso per consentire la conclusione delle indagini, il risarcimento delle famiglie delle vittime e dei lavoratori feriti oltre alla ricostruzione della catena delle responsabilità. Nonostante le dichiarazioni del RINA che, attraverso il suo direttore Paola Salza, sostiene di non conoscere la lista dei clienti della Ali Enteprises, in quanto trattasi di informazioni non obbligatorie secondo lo schema di ispezione SAI, siamo convinti che queste informazioni esistano e che vadano rese pubbliche. Oltre alla lista dei buyer, devono essere rese pubbliche anche tutte le informazioni rilevanti raccolte durante le ispezioni insieme al rapporto finale sicuramente in possesso anche del governo pakistano. Purtroppo SAI e RINA non stanno rispondendo positivamente a questa richiesta trincerandosi dietro il vincolo di segretezza contenuto nei rapporti contrattuali che intercorrono fra SAI e RINA e fra RINA e Ali Enteprises. Vincoli inaccettabili di fronte alla gerarchia delle priorità quando in ballo ci sono vite umane e diritti universali inalienabili. A Bologna è in corso (fino all’11 ottobre, ndr) il consiglio internazionale del SAI, che si concluderà a un mese esatto dalla tragedia di Karachi. La società civile internazionale e i sindacati si aspettano un impegno ufficiale e concreto a cooperare per fare luce su quanto accaduto in sostegno alle famiglie delle vittime. A partire da una immediata operazione di trasparenza, senza la quale il sistema SAI rischia di perdere definitivamente credibilità sia nei confronti dei consumatori, sia nei confronti delle imprese responsabili che hanno investito in questo processo fiducia e risorse.
* portavoce della campagna "Abiti puliti"