Esteri
La crisi vista dall’Europa
Abbiamo chiesto a tre nostri partner di commentare la recessione. S’inizia dal Regno Unito, incapace di frenare l’aumento delle disuguaglianze
Il governo inglese si occupa di economia pubblica come si trattasse di una piccola azienda. Cerca insomma di far “quadrare i conti”, invece di riconoscere che si tratta di un insieme fatto di domanda, occupazione e fiducia economica. Così, dopo tre trimestri di contrazione, a partire dal 2011, il governo di coalizione si sta concentrando su riforme dal lato dell’offerta. Tradotto, vuol dire spazzare via la regolamentazione sulle imprese, e tagliare le tasse per i ricchi.
Chiamano questa strategia “contrazione espansiva fiscale”, e non capiscono che sta fallendo, perché più velocemente si tagliano le spese, più velocemente diminuiscono le entrate fiscali. Nel frattempo, l’opposizione propone una visione tradizionale keynesiana, per la quale possiamo tornare alla crescita utilizzando lo stimolo fiscale. Ma si può davvero tornare a crescere, al business as usual?
Lo sguardo cade sempre sui dati trimestrali del prodotto interno lordo. Alla New Economics Foundation siamo sempre stati molto critici nel guardare al Pil come misura del benessere umano. Cerchiamo di scavare in profondità nella situazione economica del Regno Unito, e sappiamo che non si può separare la situazione economica da quella sociale ed ecologica.
Allora, in primo luogo c’è una buona notizia: l’occupazione in Uk ha retto sorprendentemente bene durante la recessione, e il tasso di disoccupazione oggi si attesta attorno all’8,1%. Questo continua a confondere gli economisti, che offrono molte spiegazioni differenti. È probabile che ci siano diversi fattori: un maggior ricorso al part time; la riluttanza delle banche nel costringere le imprese a chiudere, e di queste ultime a ridurre la forza lavoro in attesa della ripresa. Qualunque sia la ragione, avere un lavoro è un elemento di benessere. Tuttavia, gli altri aspetti importanti a proposito di lavoro sono i salari e le condizioni cui si pratica. E qui la situazione è meno incoraggiante. Il governo si spende per i tagli ai salari e la rimozione di regole che proteggono i dipendenti. La recessione è la scusa per accelerare il trend per il quale il capitale acquisisce una quota sempre maggiore del reddito nazionale. Infatti, la quota di reddito nazionale confluita nei salari è scesa dal 58-60% prima del 1980 al 54% di oggi. Il Trades Union Congress ha calcolato che se il lavoro avesse mantenuto la stessa quota di reddito, un lavoratore medio del Regno Unito oggi avrebbe 7mila sterline in più l’anno.
La compressione dei salari reali contribuisce a spiegare la debolezza della domanda nell’economia di oggi, ma aiuta anche a spiegare un altro problema di lungo termine per l’economia del Regno Unito: il sistema bancario e il settore immobiliare sono gravati da debiti inesigibili. Per ragioni politiche, il governo parla quasi esclusivamente di crisi del debito pubblico. Tuttavia, il vero problema è l’elevato indebitamento delle famiglie e un settore finanziario abnorme che continua a rappresentare un grande rischio per la nostra stabilità.
La ridistribuzione della ricchezza e la crescita dei salari potrebbero stimolare la domanda, ma questo non è all’ordine del giorno della politica. Il cosiddetto quantitative easing è considerato una via di fuga. Ciò comporta la creazione di nuove riserve da parte delle banche centrali, che vengono poi utilizzate per comprare titoli di Stato del Regno Unito. La Banca d’Inghilterra possiede 375 miliardi di sterline, pari al 30% del debito pubblico inglese in circolazione. Questo ha portato i tassi d’interesse sui prestiti governativi ai minimi storici. Ecco che cosa ha tenuto a galla l’economia del Regno Unito. Solo che questo meccanismo è inefficiente: ne godono soprattutto i ricchi, perché gonfia il valore delle attività finanziarie, e non è riuscito a stimolare gli investimenti e la domanda nell’economia reale. Un numero crescente di commentatori, tra cui Nef, chiedono che questa iniezione di liquidità sia rivolta soprattutto a infrastrutture a bassa emissioni di carbonio, alle energie rinnovabili, agli interventi per l’efficienza energetica delle case, alle reti super-veloci a banda larga, per creare posti di lavoro e avviare la trasformazione verso un’economia più sostenibile.
Purtroppo, il governo sembra aver abbandonato la sua promessa di essere il “più verde di sempre”. I sussidi per le fonti rinnovabili sono sotto attacco, mentre dall’altra parte è stata introdotta una riduzione fiscale sulle estrazioni di gas e petrolio nel Mare del Nord.
Questo accade proprio mentre persistono i prezzi elevati dei prodotti alimentari e di altre materie prime, che rivelano tensioni nell’intera filiera globale.
Un altro esempio: la notizia dello scioglimento record della calotta polare di questa estate non ha raggiunto i mercati dei capitali globali. Alla London Stock Exchange c’è un’elevata percentuale di aziende “fossili”, e le quotazioni attuali non tengono conto della necessità di mantenere la maggior parte di questa CO2 nel terreno, per evitare il cambiamento climatico galoppante. Il sistema finanziario resta un problema in generale. Nonostante le numerose iniziative di riforma a livello internazionale, comunitario e nel Regno Unito, i cambiamenti sostanziali nelle dimensioni e la struttura delle banche o nel sistema normativo sono stati ridotti. I contribuenti sono ancora tenuti in ostaggio da istituzioni finanziarie too-big-to-fail. C’è un sussidio implicito goduto da parte delle banche, che prendono a prestito a buon mercato dai mercati finanziari sapendo che lo Stato non le lascerà fallire. Nel 2010 l’aiuto di Stato ha raggiunto i 46 miliardi di sterline per le quattro maggiori banche del Regno Unito. Abbiamo assistito a una serie di scandali bancari, come la manipolazione del Libor -un tasso di interesse internazionale calcolato a Londra- fino alla vendita di prodotti finanziari troppo rischiosi o inadatti a privati e piccole imprese. L’opinione pubblica è furibonda, ma i politici non hanno il coraggio di affrontare seriamente il settore finanziario, che sembra fornire posti di lavoro ed entrate. Qualcosa è stato fatto in tema di paradisi fiscali, anche perché secondo un recente studio stiamo parlando di 21mila miliardi di dollari nascosti da super-ricchi. Ormai l’evasione fiscale sta lentamente diventando più di una questione politica nel Regno Unito, grazie a gruppi diversi campagne e casi clamorosi di evasione fiscale aziendale.
Al di là degli effetti economici della disuguaglianza crescente c’è, naturalmente, un costo “umano” da pagare. I manager continuano a godere di aumenti salariali significativi, mentre i redditi reali disponibili per i lavoratori “ordinari” sono diminuiti per 3 anni di seguito, schiacciati tra l’aumento del costo della vita e salari stagnanti. Le varie “charities” ora forniscono pacchi alimentari alle famiglie in difficoltà. Allo stesso tempo, un flusso di denaro verso Londra ha causato un boom di proprietà in centro città (la City, un vero e proprio paradiso fiscale, ndr), considerato ormai un rifugio sicuro da tutti, dagli oligarchi russi all’élite globale in fuga dalle tasse.
Nell’agosto del 2011 sono scoppiati tumulti in diverse città inglesi. I disordini non avevano una rivendicazione unitaria. Molte spiegazioni sono state proposte, ma a poco a poco la questione della disuguaglianza è entrata nel discorso politico. Dopo decenni nei quali era stato promesso che la ricchezza sarebbe “sgocciolata” (trickle-down) verso i più poveri, la realtà è che è “confluita verso l’alto” (flooded upwards), verso il cosiddetto “1%”. La disuguaglianza è un vettore di molti elementi sociali negativi, dalle cattive condizioni di salute a tassi di criminalità più elevati. Ad esempio, la mobilità sociale è diminuita in Gran Bretagna: in uno studio condotto su 12 Paesi, tra cui Stati Uniti, Canada e altre nazioni europee, risulta secondo per bassa mobilità sociale (per inciso, il peggior Paese è l’Italia). Aggiungete l’impatto dei tagli del governo sulle spese per il sostegno al settore dell’assistenza, e capirete che le prospettive per le comunità più svantaggiate sono difficili.
Noi auspichiamo una “Grande transizione” verso un benessere elevato, una società giusta che sappia vivere entro i limiti ecologici. Questo significa riconoscere l’economia per quel che è: la crescita infinita su un pianeta finito è un sogno riservato solo ai pazzi e agli economisti. — (Traduzione di Pietro Raitano)