Esteri
Il lavoro frena la Germania
Disoccupati sempre più poveri, nel Paese che dovrebbe guidare l’Ue verso l’uscita dalla crisi
Eccoci qua. Ancora sulla vostra riviera, a invadere le vostre spiagge. Nulla è cambiato. Noi, popolo di lavoratori, voi, popolo di intrattenitori. Noi turisti, voi bagnini. Ma com’è che con tutti i soldi che vi abbiamo elargito in sessant’anni di vacanze nella vostra penisola, ancora state in crisi? Pensieri e commenti che circolano sulle bocche del tedesco medio, motivati da una situazione europea, nella sua mente, ben chiara: una Germania forte e un Sud Europa indebitato fino al collo. Che poi questa sia la realtà e che a inasprire il suo giudizio non concorra una situazione interna tutt’altro che idilliaca è un’altra storia. Per comprendere la mentalità del tedesco medio, bisogna fare un passo indietro. È il 1989 e il muro di Berlino è appena caduto. Una data simbolica: l’inizio della fine della “tirannia socialista”.Fino allora, all’interno dei rispettivi sistemi, le due Germanie si potevano considerare due Stati solidi, forti. La Germania dell’Est rappresentava l’avanguardia tecnologica e scientifica all’interno de blocco sovietico e godeva di uno status socio-economico invidiabile rispetto ad altri Paesi socialisti; per la Germania dell’Ovest, invece, si poteva parlare a ragione di miracolo del capitalismo moderno: uno Stato che aveva saputo diventare, in brevissimo tempo, l’economia più importante del continente. Eppure entrambi i Paesi non potevano considerarsi Stati a pieno. Non avevano potere d’intervento militare, dovevano operare sotto l’egida della Nato e dell’Unione europea l’uno, dell’Unione Sovietica l’altro. Di più. Non eravamo popolo, non solo perché divisi, ma anche perché succubi di un senso di colpa che vietava d’identificarci con una nazione colpevole di efferate atrocità. Dopo il 1989 tutto ciò è cambiato.
La decantata vittoria del capitalismo sul comunismo ha permesso la trasformazione di uno Stato sociale lento ma funzionante in un sistema che ha eletto a modello occupazionale il precariato.
I lavoratori delle classi inferiori, a causa dell’integrazione di nuova forza lavoro proveniente dall’Est, ma anche per sottostare all’innalzamento del livello concorrenziale nel mercato, hanno dovuto accettare nuove forme di lavoro flessibile, che li hanno resi vulnerabili di fronte alla fluttuabilità del settore occupazionale o al timore di un tracollo economico improvviso. Paure pienamente giustificate da un divario di classe sempre più consistente, come testimoniano gli studi effettuati da Soep -Sozio-ökönomisches Panel-. Secondo i dati dell’istituto statistico, a fronte di una crescita del reddito medio poco significativa -nel 2010 circa 21mila euro annuali contro i quasi 19mila euro del 1992 -, questo valore abbia interessato solo le classi agiate, le quali hanno goduto di una crescita del 150% sul reddito medio. Per quanto riguarda i redditi più deboli si è invece registrata addirittura una contrazione fino al 70% del reddito medio.
Nemmeno lo storicamente solidissimo settore bancario tedesco mostra gli sfarzi di un tempo. Il report annuale 2011 di “Die Bank”, rivista specializzata del settore, mette in evidenza che i due maggiori istituti creditizi tedeschi –Deutsche Bank e Commerz Bank– hanno ampliato il proprio volume d’affari in ragione di assorbimenti di altri istituti, mentre molte banche hanno rivisto al ribasso, a seguito della crisi europea, il proprio business.
Se i dati macroecomici 2011 raccontano di una Germania in grado di aumentare la propria ricchezza complessiva di 149 miliardi di euro, per un totale record di 4.715 miliardi di euro, mantenendo allo stesso tempo il debito privato entro confini accettabili (21 miliardi di euro), la situazione interna, per quello che riguarda le classi medio-basse, è tutt’altro che rassicurante. Come dimostra uno studio della Fondazione sindacale Hans Böckler basato su dati statistici dell’agenzia Eurostat, infatti, non tutti i tedeschi sono diventati più ricchi. La povertà nella categoria dei disoccupati, per esempio, in Germania è cresciuta molto più velocemente che in tutti gli altri paesi dell’Unione europea. Secondo lo studio dell’Hans Böckler, il 70 per cento dei disoccupati tedeschi aveva -nel 2009- un reddito al di sotto della soglia di povertà (cioè inferiore del 60 per cento rispetto a quello medio della popolazione totale), con addirittura 25 punti percentuali in più rispetto alla media dei 27 Paesi dell’Ue. Secondo il medesimo studio, tra il 2004 e il 2009 il tasso di povertà in Germania, tra i disoccupati, è aumentato di 29 punti, contro i 5 punti percentuali dei Paesi Ue. Anche tra i lavoratori, la quota di poveri è aumentata di 2,2 punti percentuali, contro i soli 0,2 punti della zona Ue. E qui entra in gioco la politica.
In una società in cui due terzi dell’elettorato versa in condizioni preoccupanti, sempre più in difficoltà tra debiti privati e decrescita dei salari, diventa facile, per politici e affini, giocare la carta del populismo, della responsabilità degli stranieri, dei Paesi del Sud Europa.
A maggior ragione se si parla di un popolo che per decenni è stato sottoposto al frustrante status di “remissiva colpevolezza” per un passato dal quale, in fondo, la maggior parte dei tedeschi credono di aver imparato molto più che altri Paesi europei. Di sicuro dell’Italia, che per quindici anni ha scelto come premier un uomo, Silvio Berlusconi, il quale ha incarnato in sé tutti i peggiori stereotipi dell’italiano medio -e che si è poi addirittura alleato con un neofascista-. Se da una parte la Germania è costretta a fare da tutor a un’Europa sempre più divisa e povera, dall’altra la ricchezza apparente del Paese, benché basata su dati che riguardano una fetta assai minima della popolazione, da adito a un crescente sentimento di superiorità, di euroscetticismo, nonché a un certo orgoglioso revisionismo. È il caso dell’economista socialdemocratico Thilo Sarrazin che, dopo aver suscitato enormi polemiche nel 2010 con il libro “Deutschland schafft sich ab” -“La Germania si abolisce”, quasi 3 milioni di copie vendute- in cui adduceva motivazioni di carattere genetico alla mancata integrazione della comunità turca nella società tedesca, è ritornato alla ribalta quest’estate con una nuova opera dal titolo “L’Europa non ha bisogno dell’euro”. Nel nuovo saggio l’autore sostiene, per esempio, che l’appoggio di Spd, Linke e Grüne agli Eurobond “sia guidato da un riflesso molto tedesco, secondo il quale l’espiazione dell’Olocausto e della Seconda Guerra Mondiale passi per forza di cose attraverso la deposizione dei nostri interessi, perfino dei nostri soldi, nelle mani europee.”
Che la Germania si stia guardando intorno, al di fuori dei confini continentali, d’altronde non è un segreto. Non a caso, nell’ultimo semestre si sono intensificati i viaggi della cancelliera Merkel a Pechino, dove l’imprenditoria tedesca spera di firmare nuovi contratti. Il rispetto reciproco dei due maggiori Paesi esportatori del mondo si riflette anche nei dati economici. Nel 2011, il volume degli scambi è stato pari a 144 miliardi di euro, più che con qualsiasi altro Paese non europeo. La Germania investe direttamente nella Repubblica popolare cinese attualmente per una cifra pari a 26 miliardi di euro, mentre in direzione opposta si registrano solo 1,2 miliardi di euro, ma con una tendenza chiaramente in aumento.
Il messaggio è chiaro: l’Europa non è più un continente appetibile per l’economia tedesca, per lo meno non in termini economici. Di riflesso, la partecipazione all’Unione europea e alla moneta comune viene vissuta sempre più come un fardello a cui dare tutte le colpe della recessione interna. L’Italia, in questo contesto, rappresenta un caso particolare. Il primato stereotipato di popolo pigro e lazzarone ha passato il testimone dall’Italia alla Grecia. D’altra parte, però, che la situazione italiana trovi simpatie in Germania è assai dura. Anche il tedesco di sinistra, o comunque con una visione più aperta nei confronti dell’ambito europeo, non ritiene sufficientemente affidabile un Paese che per quindici anni è stato sottomesso al gioco del berlusconismo e a facili populismi. L’Italia non è più appetibile, in fin dei conti, nemmeno dal punto di vista della creatività, che è stata in passato il marchio del Belpaese.
Anzi, alla creatività caotica dei popoli del Sud Europa, oggi il tedesco medio preferisce perfino il pragmatismo made in China. (Ha collaborato Riccardo Valsecchi) —