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Opinioni

Quei tecnicismi che “giustificano” il debito

Il 4 ottobre 1984, di fronte ai rappresentanti dell’Onu, Thomas Sankara disse: “Il debito non può essere rimborsato! Prima di tutto, quelli che ci hanno condotto all’indebitamento hanno giocato come al casinò; finché guadagnavano non c’era nessun dibattito, ora che perdono al gioco esigono il rimborso. E si parla di crisi. No! Hanno giocato. Hanno perduto. È la regola del gioco”. Sankara era stato eletto presidente del Burkina Faso appena due mesi prima. Tre anni dopo sarebbe stato ucciso.

Tratto da Altreconomia 135 — Febbraio 2012

Di questi tempi la citazione è stata spesso ripresa, e non a torto. Sankara parlava del debito internazionale che schiacciava i Paesi africani a favore delle potenze occidentali. Oggi un’analogo debito schiaccia le “potenze” occidentali a favore però di anonimi “mercati finanziari”. La dimensione dei quali è tale da non crederci.

Oggi assistiamo allo sconquasso, che tra le altre cose ha bloccato il flusso di denaro verso quella che chiamiamo “economia reale”, ovvero l’insieme delle aziende nelle quali più o meno tutti lavoriamo (o vorremmo farlo). E che con le loro tasse garantiscono il funzionamento dello Stato. Le misure prese dalle istituzioni finanziarie sovranazionali, come la Banca centrale europea, non migliorano la situazione: prestare soldi agli istituti finanziari con tassi di interesse minimi e aumentare la liquidità del sistema non ha giovato alle imprese e alle loro possibilità di farsi prestare soldi dalle banche. Ha invece aumentato la speculazione, in un circolo vizioso che ricorda chi cerca di fronteggiare una tossicodipendenza aumentando le dosi di sostanza stupefacente. Peraltro, la Bce non ha fatto nulla di originale, ma ha ribadito una mossa che era già stata fatta dalla Fed americana l’anno prima. Almeno poteva imparare dagli errori altrui.

Se poi guardiamo al sistema bancario italiano, oggi dobbiamo dire con chiarezza e onestà che è tecnicamente fallito, e che sta in piedi solo grazie a favori normativi e ad architetture finanziarie. Oggi dovremmo anche dire con onestà che l’Italia sta nel gruppo dei “grandi” come un imbucato alla festa. Uno che chiama “crescita” costruire case che rimangono sfitte, autostrade che si riempiono di camion in coda, e perfino bruciare rifiuti. E se ne vanta.
“Il capitalismo stesso sta bruciando -ha commentato il giurista Guido Rossi dalle pagine de Il Sole 24Ore– , incrinato da conflitti di interesse epidemici, che obbediscono solo a un potere dominato dalla speculazione e dalla ricerca del profitto a ogni costo”.
Basta, andiamo oltre.

“È questo il modo in cui finisce il mondo -scriveva T.S. Eliot-. Non già con uno schianto ma con un lamento”. Il lamento che sentiamo ripetere in Italia come una litania è che solo il mercato porta all’equilibrio. Pochi si chiedono a quale tipo di equilibrio: un conto è quello delle economie scandinave, un conto è quello, solidissimo, delle economie mafiose, tanto per fare un esempio.
I vertici politici ed economici che decidono delle nostre sorti -sempre i soliti personaggi, una generazione inamovibile- si trincerano nei loro palazzi e tendono ad escludere dal governo di questa fase di transizione il popolo (che, almeno sulla carta, dovrebbe essere sovrano). Il trucco per farlo è semplice: si utilizzano tecnicismi incomprensibili, si sostiene che certe decisioni non possono essere prese da persone “normali”. Si scavalca la volontà democratica, come nel caso della privatizzazione dell’acqua. Salvo poi utilizzare -per giustificare i propri atti- argomentazioni a volte patetiche, banali e superate, tipo “per aprirsi al mondo bisogno investire sugli aeroporti”. Ma dai.

Quanto aveva ragione Antonio Gramsci, che quasi un secolo fa scriveva: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”.
Ma di transizione si tratta, e all’orizzonte qualcosa già si vede. Secondo Unioncamere, il 38% delle assunzioni delle aziende nel 2011 ha riguarda figure professionali legate alla sostenibilità: 227mila sul totale delle 600mila previste.

Parafrasando Sant’Agostino, la speranza ha due figli: lo sdegno e il coraggio.
 

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