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Opinioni

Una Stabilità in deficit

Le coperture della prossima manovra del governo italiano saranno, per almeno i due terzi, "di carta". Una forzatura possibile a patto che venga accettata dall’Europa e dalla BCE, e sempre che l’esecutivo voglia discutere anche delle necessarie riforme istituzionali legate alla minor capacità di spesa di Comuni e Regioni

L’idea di “spendere il deficit” è stata a lungo l’espressione della paradossale, e improbabile, volontà di qualche amministratore pubblico di moltiplicare risorse inesistenti sperando nella buona sorte futura. In una determinata fase tale idea ha trovato persino una teorizzazione compiuta, nobilitandosi con l’utilizzo della più efficace formula anglosassone del “deficit spending”. Si tratta di una strada oggi poco percorribile per un Paese come l’Italia, che ha un debito pubblico superiore al 130% del Pil ed è obbligato ogni anno a trovare circa 400 miliardi di euro per finanziarlo. Tuttavia la legge di Stabilità 2016 sembra rintracciare le proprie coperture per quasi due terzi in deficit. 
Su un totale ipotizzabile di circa 27 miliardi di euro, che dovrebbero costituire il valore complessivo della manovra, quasi 6,5 miliardi provengono infatti dal riconoscimento, già ottenuto dal governo italiano in sede europea, della possibilità di far salire il deficit tendenziale dall’1,4 all’1,8%. Ma il premier Renzi e il ministro Padoan puntano a recuperare almeno una parte anche dell’altro 0,6% -dunque una decina di miliardi- che potrebbe essere “liberata” qualora la Commissione europea prendesse atto di emergenze particolari in corso o utilizzando altre clausole.
In questo senso, la futura legge di Stabilità acquisirebbe contorni fortemente espansivi accentuati dalla decisione di stimare un Pil in maggiore crescita, recuperando da tale stima quasi 2 miliardi di euro, e dalla “contabilizzazione” di un costo del debito pubblico molto basso. In estrema sintesi, quindi, larga parte delle coperture della prossima legge di Stabilità paiono essere sulla carta e si affidano a previsioni, fatti salvi i tagli alla spesa pubblica, stimati in 10 miliardi e, in realtà, assai complessi da realizzare in una simile misura.
È irragionevole tutto ciò? Probabilmente no, a patto che si compiano almeno tre condizioni fondamentali.

1) È indispensabile che una manovra finanziata per due terzi in deficit sia accettata dall’Europa perché qualsiasi forzatura in questa direzione metterebbe nuovamente il nostro Paese nel mirino della speculazione: solo l’avallo europeo può evitare improvvisi rialzi degli spread, dettati nei mercati dall’impressione che l’Italia si sia scordata della mole gigantesca del suo debito. Se, invece, l’Europa mostrerà di condividere l’impostazione italiana, allora sarà evidente che le coperture in deficit assumono il carattere del superamento delle inspiegabili e ormai incomprensibili rigidità dei vincoli di Maastricht.

2) Occorre che non cambi la linea della BCE, solerte nel fornire liquidità a prezzi stracciati per garantire la facile collocazione dei titoli del debito pubblico: in tal senso, una buona notizia è giunta dalla Federal Reserve che ha deciso di non aumentare -per ora- i propri tassi di interesse, dando così un segnale chiaro anche alle altre banche centrali.

3) La natura espansiva della manovra potrà determinare una spinta al Pil nazionale ma rende più urgente, da subito, proprio per l’“utilizzo” del deficit, una definizione di quali siano i compiti delle diverse parti della macchina statuale. Se si utilizza il deficit per ridurre le tasse, quali sono gli investimenti e i servizi che continueranno ad essere realizzati dagli enti pubblici? Non è più pensabile che le attribuzioni di Regioni e Comuni siano le medesime di quelle definite 15 anni fa dal Testo Unico e le risorse siano state ridotte del 50-60%.
La riforma dello Stato non passa dalla eleggibilità o meno del Senato quanto dall’esigenza di chiarire se esitano o meno gli spazi per l’intervento pubblico perché se il deficit finanzia la riduzione del carico fiscale non potrà finanziare gli investimenti e i servizi; ma allora occorre procedere, rapidamente appunto, a stabilire quale sia l’assetto istituzionale di un Paese con meno tasse e meno spesa pubblica, perché l’attuale assetto si regge, invece, su tasse e su capacità di intervento pubblico.

* Alessandro Volpi, Università di Pisa

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