Opinioni
Per salvare l’Italia serve più giustizia, a partire dalla patrimoniale.
Ecco l’epifania del “mercato-moloch”. Compiuto il processo di “naturalizzazione” delle dinamiche economico-finanziarie, per cui ci siamo abituati a pensare all’economia come a una serie di eventi “naturali”, imprevedibili e incontrollabili, verso le quali agire in maniera difensiva (leggetevi “Eventi Estremi”) finalmente siamo arrivati alla “divinizzazione”.
Il mercato è un dio, irascibile e permaloso, che pretende sacrifici. Il sacrificio umano lo compie la politica. Grazie al tributo di lunedì 5, il decreto del governo Monti, il dio sembra essersi placato. “I mercati promuovono la manovra” si leggeva sulle pagine dei giornali. Fino a quando, nessuno può dirlo. Siamo nelle mani del Fato.
Si chiama decreto "Salva Italia", ma sembra una misura fatta apposta per salvare gli investitori che hanno comprato titoli italiani. Perché forse è il caso di ricordarlo: 30 miliardi (lordi) di euro di manovra (tra l’altro, inutile se non si trova modo di applicare le precedenti manovre, del valore complessivo di 60 miliardi ) non sono nulla di fronte ai 700 miliardi di debito pubblico italiano che investitori istituzionali detengono all’estero. Il dio ci ha in pugno. La manovra è “inevitabile”.
Essendo un tributo al mercato, era ovvio immaginarsi che il mercato di questo decreto avrebbe dettato i tempi. Ovvero l’immediato, non il futuro. La trimestrale, quasi. La lungimiranza, quella è un miraggio, per ora. Forse anche per questo tutta questa enfasi verso il pareggio di bilancio nel 2013, obbligo che in realtà nessuno ci ha imposto, tantomeno l’Ue.
Proviamo allora ad analizzare sinteticamente il decreto che verrà sottoposto all’esame del Parlamento.
Tredici miliardi di tagli, innanzitutto. Gli enti locali, come sempre, ma soprattutto le pensioni. Molto è stato scritto, per cui non vale la pena dilungarsi, sugli effetti della misura, che colpirà soprattutto le lavoratrici del settore privato. Tuttavia ci sarebbe anche da chiedersi che senso ha sospendere l’indicizzazione. Poco, o nulla, sui tagli ai privilegi dei politici.
Diciassette sono invece i miliardi che dovrebbero entrare grazie a nuove tasse. L’innalzamento dell’Iva fino al 23,5% è la prima misura. Purtroppo sappiamo che l’Iva è un’imposta-colabrodo, e che circa il 10% del suo gettito è persa per frodi. Questo perché i Paesi europei non riescono a mettersi d’accordo su una gestione comune dell’Iva. L’Italia è il Paese che gestisce peggio l’Iva in tutto il mondo. Aumentare le aliquote è la risposta giusta? Quel che è certo, è che non si fa distinzione tra le tipologie di consumi, quando invece un uso adeguato di questa imposta avrebbe potuto indirizzare verso prodotti magari locali, sostenibili, duraturi.
La reintroduzione dell’Ici è una misura interessante, ma andrebbe calibrata bene in un Paese dove il 25% in valore della proprietà immobiliare è concentrata in mano al 5% delle famiglie.
La sovrattassa sui capitali scudati negli ultimi dieci anni, pari all’1,5%, è una piccolissima consolazione per una beffa che ancora brucia. Le cosiddette “mini patrimoniali” sui beni di lusso, sono ben poca cosa rispetto all’esigenza di una vera patrimoniale, di cui parleremo fra poco.
Anche la tassa sugli investimenti è poco più di un bollo, e non ha nulla a che fare con una vera e propria tassa sulle transazioni finanziarie.
Poi, le solite ricette: dismissioni del patrimonio immobiliare pubblico, liberalizzazioni forzate (anche a costo di ricorrere alla Corte Costituzionale contro gli enti locali che ostacolano la concorrenza), grandi opere per oltre 5 miliardi (Tav, Mose, Terzo Valico) dall’utilità più che dubbia.
Infine, le banche hanno incassato la garanzia dello Stato sulle emissioni obbligazionarie.
L’unico modo per salvare l’Italia è garantire uguaglianza. Ha scritto recentemente l’analista Giulio Sensi: “Sappiamo che il patrimonio delle cinque famiglie più ricche d’Italia -i cognomi sono: Ferrero, Del Vecchio, Berlusconi, Armani, Benetton- supera il reddito annuale di un numero di donne più alto della popolazione del Comune di Roma, quasi 3 milioni. Se guardiano, oltre che al reddito, anche all’intera ricchezza, le dieci persone più ricche hanno in mano lo stesso patrimonio di 3 milioni di poveri. La metà più povera delle famiglie italiane detiene il 10% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco il 45%. Tradotto fuori dal linguaggio delle percentuali: 30 milioni circa di persone hanno a disposizione un valore di 860 miliardi di euro, mentre 6 milioni di persone 3.800 miliardi di euro. Il celebre indice di Gini, la complessa misurazione della disuguaglianza, per il nostro Paese segna ancora 0,613 in una scala variabile da 0 -massimo livello di uguaglianza- a 1”.
Questo ci indica la vera grande assente di questa manovra: una tassa patrimoniale. Le imposte che riguardano i patrimoni in Italia ammontano a un valore percentuale sul Pil fra i più bassi d’Europa: 2,1% rispetto al 4,5 % della Gran Bretagna e il 3,5% della Francia. Secondo i dati contenuti nei rapporti annuali, nel 1995 l’Italia era uno dei Paesi che presentavano una delle più alte quote del gettito fiscale proveniente dalle imposte patrimoniali, il 9,7% del totale. Negli ultimi anni questa quota è calata per assestarsi al 5,8%, mentre la gran parte degli altri paesi europei percorrevano il trend inverso -il Regno Unito passando dal 10,5 al 14,9%, la Francia dal 10 al 10,5%, la Spagna dal 7,4 all’8,2%.
Se non si è voluta una patrimoniale, perché almeno non toccare l’Irpef?
Questa manovra “inevitabile” aveva invece molte alternative. Misure che guardassero alla giustizia e al futuro. Investimenti sull’efficienza energetica, le fonti rinnovabili e il trasporto pubblico, ad esempio, al posto del cemento. Lotta vera all’evasione fiscale e alla corruzione. Taglio drastico delle spese per la Difesa, che ci costa 23 miliardi di euro l’anno e sembra l’unico ministero non toccato dai tagli “lineari” di Tremonti. Perché non fermare la spesa di 15 miliardi (metà della manovra) per i caccia F35, una follia senza giustificazioni?
Dov’è il futuro in questa manovra? Dove sono i giovani, le donne?
Si può considerare il governo Monti il “meno peggio”, e di sicuro si tratta di un balzo in avanti rispetto al precedente. Purtroppo però, una visione di ciò che vuol dire “sviluppo” e “benessere” vecchia di 40 anni. Il rigore da solo non basta a portarci lontano.