Ambiente
Miraggio bonifiche
Sanare le aree più inquinate del Paese conviene anche allo Stato, perché riduce i costi sanitari. Ma si interviene solo dove le aree hanno un interesse immobiliare
Il tre per cento del territorio italiano “è fuori gioco”. È questa l’eredità di un passato industriale accompagnato da una ridotta tutela ambientale, ed è riassunta in un paio di numeri: 3.508 sono le “morti in eccesso” per malattie riconducibili alle esposizioni industriali registrate in un periodo di otto anni all’interno di 44 “siti d’interesse nazionale” (Sin), aree fortemente inquinate e da bonificare, perimetrate a partire dalla fine degli anni Novanta. Cinquantasette sono i Sin in tutto il Paese, e occupano 5.500 chilometri quadrati, più 1.800 chilometri quadrati di aree marine, lagunari e lacustri.
I problemi, in queste aree, si chiamano diossine, idrocarburi policiclici aromatici, metalli pesanti. E riguardano tutti: il 15% della popolazione -oltre 9 milioni di italiani- vive in uno degli oltre 300 Comuni che sono ricompresi all’interno di uno dei siti d’interesse nazionale. Che non sono quindi lande desolate.
Il numero dei morti in eccesso, 3.508, è figlio di una ricerca finanziata dal ministero della Salute, che si chiama “Sentieri”, ovvero Studio epidemiologico nazionale sui territori e insediamenti esposti a rischi da inquinamento. Lo studio è stato pubblicato nel novembre 2011, ma non ha lasciato traccia nell’agenda della politica. Solo dopo la “sentenza Eternit”, che ha condannato la multinazionale del cemento-amianto per le morti causate dallo stabilimento di Casale Monferrato (Al), che insieme a una quarantina di Comuni limitrofi è anche uno dei 57 Sin, ha dato coraggio al ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, che a Radiocor ha spiegato: “Il problema vero oggi in Italia è che, nonostante l’impegno del ministero dell’Ambiente in questo campo e le ingenti risorse impiegate (circa 50 milioni di euro solo nelle aree industriali più inquinate, i cosiddetti Sin), non abbiamo ancora una mappatura completa dei siti che devono essere risanati per l’inquinamento da amianto”.
Lo stesso Clini, però, non aveva alzato la voce quando il decreto “Salva Italia”, convertito in legge con fiducia poco prima di Natale, con il comma 5 dell’articolo 40 ha di fatto garantito “un condono ai proprietari dei terreni da bonificare, che consente di poter rinviare l’intervento senza prevedere una data e una scadenza certi”, spiega Stefano Leoni, presidente del Wwf Italia e già commissario delegato per il Sin “ex Acna” di Cengio (Sv) e Saliceto (Cn): “Il Testo unico dell’Ambiente, in vigore dal 2006, prevedeva una obbligatoria ‘caratterizzazione’ del sito, per capire l’entità dell’intervento. A questa facevano seguito l’elaborazione di un piano di bonifica, per i siti abbandonati, o un piano di ‘messa in sicurezza operativa’, che intervenisse per bloccare l’inquinamento permettendo, allo stesso tempo, alle attività produttive di continuare ad operare. Con questo comma del decreto ‘Salva Italia’ -continua Leoni-, il soggetto tenuto alla bonifica può presentare un ‘piano di stralcio’, e andare avanti per lotti, senza predisporre un intervento complessivo”. La messa in sicurezza operativa, prima riservata ai siti ancora produttivi, con il decreto può essere applicata anche a quelli abbandonati: “C’è il rischio che diventi una ‘messa in sicurezza’ permanente, senza arrivare mai alla bonifica”.
Si acuisce, così, una dinamica che Edoardo Bai, medico del lavoro in pensione e consulente di Legambiente Lombardia sul tema delle bonifiche, riassume in quattro parole: “Intervieni dove fai soldi. Il privato tenuto alla bonifica pretende un ritorno economico, tradotto in metri cubi di capacità edificatoria ‘aggiuntiva’. È anche per questo se in Lombardia, ormai, la maggior parte degli interventi di edilizia residenziale avviene su aree inquinate”.
Laddove non c’è interesse immobiliare, nessuno bonifica. “Guarda, ad esempio, ciò che accade a Broni, in provincia di Pavia -commenta Bai-: quello della ex Fibronit è uno dei siti peggiori in Italia, per la presenza di amianto. Servirebbero 25 milioni di euro per la bonifica, al momento ne sono stati stanziati 5 per la messa in sicurezza. A Stradella e Broni muoiono dalle 6 alle 10 persone all’anno, per l’inquinamento. Siccome nessuno vuole costruire, non si interviene”. Bai suggerisce una soluzione all’americana, il Resource Conservation and Recovery Act, del 1976: “Gli Stati Uniti d’America hanno fatto una cosa molto impopolare, cioè tassare le ditte inquinanti: le risorse incamerate hanno alimentato un superfondo, utilizzato per bonificare. A quel punto, è l’ente pubblico a realizzare la bonifica, e poi decide che cosa fare del terreno. Così gli effetti speculativi sono, in parte, risolti”.
Alcune ricerche, poi, suggeriscono che intervenendo per ridurre l’inquinamento dei siti d’interesse nazionale il Paese potrebbe ricavare, nel medio-lungo periodo, un risultato positivo anche in termini di riduzione della spesa pubblica (e controllo del debito pubblico). “Abbiamo analizzato i due Sin siciliani di Gela (Ag) e Priolo (Sr), perché per entrambi sono state eseguite le caratterizzazioni ambientali e perché sono stati dichiarati ad alto rischio già nel 1998” racconta Fabrizio Bianchi.
È responsabile dell’Unità di ricerca epidemiologia ambientale dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr a Pisa, ed è uno degli autori di un’analisi costi-benefici sui due “toxic industrial contaminated sites” pubblicata sulla rivista Environmenal Health: “Lo Stato potrebbe stanziare altri 10 miliardi di euro per la bonifica dei due siti, e nel lungo periodo il ritorno per la finanza pubblica sarebbe positivo. È un modello matematico, applicato ai dati epidemiologici riferiti alla zona: bonificando i due siti eviteremmo, ogni anno, 47 casi di morte prematura, 281 ricoveri per tumore e 2.702 ricoveri per altre cause legate all’inquinamento, e le relative spese mediche. Nello scenario che assumiamo, gli effetti dell’inquinamento terminano a 20 anni dalla fine delle attività di bonifica. Il ‘valore monetario’ lo abbiamo quantificato considerando i costi sanitari diretti, il ‘costo di malattia’, ma anche aggiungendo i costi non materiali, come il dolore, la paura e lo stress”. In inglese questo è definito “willingness to pay”, ovvero “quanto sei disposto a pagare per”. Il beneficio monetario rimovendo l’inquinamento industriale è di 3,59 miliardi di euro per Priolo, e 6,63 miliardi per Gela.
Rispettivamente, il 20 e il 2 per cento di quando lo Stato italiano ha effettivamente stanziato per Priolo, 774,5 milioni di euro, e Gela, 127,4. “La bonifica ambientale -commenta Bianchi- rappresenta anche una grande opportunità d’investimento”. La spesa sanitaria, invece, è tutta debito pubblico. —