Ambiente
L’ombra di un “accordo globale verde” sulla lotta ai cambiamenti climatici
Intervista a Silvia Ribeiro, ricercatrice dell’Etc Group. A dieci giorni dall’incontro Onu sui cambiamenti climatici di Durban spiega perché le proposte sul tavolo dei negoziati non serviranno a salvare il Pianeta. "Green New Deal", "Redd" e geoingegneria sono solo espedienti per non affrontare il problema della necessaria riduzione delle emissioni
Silvia Ribeiro è direttore per l’America Latina di Etc Group, una organizzazione che si occupa di ricerca e analisi sulle tecnologie. L’Etc Group (www.etcgroup.org) ha sede ad Ottawa, in Ontario (Canada), e lavora in partnership con le organizzazioni della società civile nei Paesi del Sud del mondo. Ha l’obiettivo di “vigilare il potere, monitorare la tecnologia, rafforzare la diversità”.
Negli ultimi anni, Etc ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica il tema della “geoingegneria”, ovvero degli interventi sull’atmosfera in grado di manipolare la madre terra per incidere sui cambiamenti climatici. “Strumenti -spiega Ribeiro, giornalista e divulgatrice scientifica, collaboratrice del quotidiano messicano La Jornada- che permetterebbero a chi dispone delle tecnologie e del denaro necessario di maneggiare il ‘termostato globale’, per non andare alla radice del problema”. Quella prospettata da Silvia Ribeiro non è fantascienza: nell’ottobre del 2010 la Convenzione sulla diversità biologica (www.cbd.int), una dei trattati internazionali siglati nel 1992 a margine del summit mondiale di Rio de Janeiro, che riunisce 193 Paesi, ha siglato una moratoria sulla geoingegneria finché non ne saranno provati gli effetti sociali ed ambientali.
Più in generale, la Ribeiro (nella foto sotto) negli ultimi anni ha concentrato il suo lavoro di ricerca sul legame tra sfruttamento delle risorse naturali e cambiamenti climatici, temi al centro dell’agenda di Cop17, la 17° conferenza delle parti della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, in corso fino al 9 dicembre a Durban, in Sudafrica (www.cop17-cmp7durban.com).
Che cosa c’è di sbagliato nel Green New Deal proposto, tra gli altri, dal presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama?
Viviamo una crisi che è contemporaneamente finanziaria, climatica, ambientale e alimentare. La proposta, per approfittare di questa situazione, è quella di una ‘nuova economia verde’, un ‘accordo verde globale’, per parafrasare il New Deal che portò il mondo fuori dalla crisi del ’29.
Secondo Obama si tratta di un meccanismo win win, che vede solo vincitori. Gli investimenti saranno dirottati su iniziative in grado di affrontare i problemi del clima. Capaci di agire allo stesso tempo su clima, ambiente e finanza.
Il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep, www.unep.org) sta lavorando da tempo alla finanziarizzazione della natura, all’utilizzo combinato di meccanismi finanziari e di nuove tecnologie. Il ruolo degli Stati è permettere che gli effetti di queste scelte possano realizzarsi. Pensa al mercato dei crediti di emissione, che è un commercio tutto virtuale, il mercato dell’aria. Tutto questo, che è futuro e incerto, ha conseguenze tremende per le comunità locali, e i territori.
Tra le ‘azioni’ in rampa di lancio c’è il pagamento per i ‘servizi ambientali’, che significa niente meno che cambiare nome e dare un prezzo alle funzioni della natura. Alla funzione regolatoria dei boschi, ad esempio. I servizi ambientali previsti sono di cinque: quello idrologico, quella forestale, la bio-prospezione, quello paesaggistico e la pollinizzazione.
Nei Paesi del Sud del mondo, progetti di questo tipo sono ‘finanziati’ dalla Banca mondiale o da banche pubbliche, come il Bid, la Banca interamericana per lo sviluppo. Nei bilanci degli Stati entrano come debiti, con l’idea che serviranno a generare un mercato, in grado di ripagarlo. Alle comunità indigene locali si fa credere che quello che si realizza sia un riconoscimento dei loro diritti, in realtà alle politiche pubbliche si associa un mercato. Al pubblico, si sostituisce un mercato.
Nei casi di bio-prospezione, esplorazione della diversità biologica, abbiamo assistito a soggetti che promuovono una sorta di concorrenza tra le comunità, una corsa a chi vende prima.
Tra le proposte in discussione ce n’è una della Commissione europea, che si chiama ‘L’economia degli ecosistemi e della biodiversità’ ed è un progetto coordinato da un ex banchiere di Deutsche Bank. Ha l’obiettivo di porre un prezzo ad ogni funzione della natura. Biodiversity offsets, sviluppo della biodiversità, commercio delle certificazioni forestali e dei prodotti ecologici. Punta a trasformare l’aria dei boschi in una commodity, un bene di consumo. Si tratta, a mio avviso, di creare nuovi problemi: invece di andare alle cause della crisi, generalmente quello che propone l’economia verde sono nuove fonti di guadagno per gli stessi attori che l’hanno creata.
A Durban si discuterà di “Redd +” (www.un-redd.org), il programma delle Nazioni Unite in tema di deforestazione e cambiamenti climatici. Per quali motivi la società civile è molto critica, al rispetto?
Perché il programma Redd ‘paga’ la deforestazione evitata. Chi beneficia, deve provare di essere stato un ‘deforestatore’, e di essere disposto a rinunciare. Non a caso, la sigla significa ‘Riduzione delle emissioni a causa di deforestazione e di degradazione delle foreste’.
Greenpeace ha denunciato che in Ghana siano stati fatti calcoli falsati sulla deforestazione, per poter sfruttare il meccanismo Redd.
Più in generale, il programma non avvantaggia quelle comunità che, da sempre, si sono prese cura dei boschi, ma a favore di coloro che hanno deforestato. È un premio per coloro che hanno creato il problema. A questo, nella versione aggiornata di Redd (Redd +, ndr) hanno aggregato altri aspetti che riguardano la ‘compra-vendita’ delle comunità che stanno gestendo i boschi, perché tutti i boschi del mondo sono abitati, in maggiore o minore scala, da popoli indigeni o contadini che vivono lì da molto tempo.
Qual’è l’effetto di questo programma sulle comunità locali?
Faccio un esempio, raccontando ciò che è accaduto nello Stato messicano di Oaxaca. Una comunità ha aderito al programma Redd, accettando il pagamento, nel primo anno, di una quantità x. Per il manejo (la gestione) è arrivata una certificatrice, che ha ‘insegnato’ loro come gestire il bosco. La comunità non può più piantare mais né fagioli, fondamentali per il proprio sostentamento. Dopo un anno, così, chiede di uscire dal progetto. Non può: rischia multe, perché il governo dello Stato ha firmato un contratto di 5 anni, in scadenza nel 2010. Il Governo ha identificato quella zona come “prioritaria di applicazione Redd”. La comunità è stata, di fatto, espulsa. In un Paese in cui il 65% dei boschi sono comunitari, chi li vive non può usare i boschi. Le comunità che si negano, diventano responsabili del cambiamento climatico.
Redd rappresenta, nei fatti, una forma di alienazione del territorio. Perché i contadini, anche quando continuano a mantenere titoli di proprietà (individuale o collettiva, ndr) sui boschi, devono lasciare le decisioni sulla gestione a certificatori esterni, stranieri o alle imprese che hanno pagato per acquistare il Co2 che -si suppone- quel bosco sia in grado di assorbire. C’è un terzo problema, inoltre: i boschi sono vivi, e perciò non è chiaro quanta Co2 essi siano in grado di assorbire, e quanto invece quello emesso. Per questo sono stati creati sistemi di vigilanza molto avanzati, con impianti satellitari, con l’uso di fotografie ad infrarossi, che è un nuovo strumento di controllo sui movimenti all’interno delle comunità e serve anche per realizzare una prospezione generale dei terreni, che serve per lo sfruttamento minerario, per costruire strade, per ogni tipo di ricerca, inclusa la bioprospezione, volta al riconoscimento e allo sfruttamento delle risorse genetiche. Sono aspetti secondari del programma, ma portano con sé altri pericoli.
Nell’ambito dello sviluppo delle tecnologie per la “lotta ai cambiamenti climatici” alcuni Paesi credono sia possibile manipolare l’atmosfera. Etc Group ha pubblicato lo scorso anno un rapporto intitolato Geopiratería Argumentos contra la geoingeniería, ed ha promosso una campagna contro un progetto sperimentale da realizzarsi nel Regno Unito. Cos’è la “geoingegneria”, e perché è così pericolosa?
Parto dal progetto inglese, che si chiama Spice, ovvero Stratospheric Particle Injection for Climate Engineering, è coordinato dall’Università di Bristol ed è finanziato dal Consiglio di ricerca in ingegneria e scienze fisiche.
L’obiettivo di queste azioni è arrivare a fertilizzare l’oceano con il ferro, perché possa assorbire più Co2. Il messaggio diffuso è: ‘Non serve cambiare niente, anzi è possibile creare un mercato nuovo’.
Con Spice il Regno Unito mira ad inserire particelle nella stratosfera, per creare una sorta di nube vulcanica artificiale, capace di diminuire la portata dei raggi solari che arrivano alla terra, per abbassare la temperatura. Sembra una cosa folle, ma soprattutto comporta moltissimi rischi: potrebbe modificare i cicli dei venti e della pioggia, in Africa e in Asia. Inoltre, queste particelle sarebbero tossico quando scendono sul pianeta.
Il progetto Spice non sarebbe stato grande, e la geoingegneria -per cambiare davvero il clima- dev’essere fatto su scala gigante. Quello progettato nel Regno Unito è una sorta di tubo, di un chilometro, una prova generale per studiare come inviare le particelle nella stratosfera. La nostra valutazione, che è la stessa delle altre realtà che hanno aderito alla campagna “Giù le mani dalla madre terra” (www.handsoffmotherearth.org), è che servisse a provare uno strumento, l’arma che usano per l’altro progetto più ampio.
Tutti i progetti di geoingegneria sono in fase di moratoria nell’ambito dell’Accordo sulla diversità biologica delle Nazioni Unite, e per questo ci chiediamo per quale motivo il Regno Unito stia facendo esperimenti che possono essere funzionali solo per realizzare questo tipo di progetto, che è terribile, perché se davvero lo si facesse, a parte il rischio per l’ambiente e le persone, perché quella che si crea è come una nube vulcanica, ricca di solfiti, e se questo avesse effetti sul clima, questo significherebbe che chi ha il denaro e la tecnologia a disposizione, come gli Stati Uniti d’America e l’Inghilterra, che sono tra i principali protagonisti del cambiamento climatico, avrebbe anche modo di maneggiare il termostato globale. È molto conveniente applicare questa tecnologia al clima, per non andare alla radice dei problemi. La geoingegneria, in quest’ottica, ha moltissime implicazioni: chi controlla il clima, ha un potere immenso. Per tutti questi motivi, ci siamo opposti a questo esperimento, anche se in sé non era troppo pericoloso. Avrebbe dovuto partire ad ottobre 2011, ma è stato sospeso. Sospeso, non bloccato. Fermato dicendo che realizzeranno consultazioni. Nel farlo, però, stanno cercando di manipolare l’opinione pubblica, per far sì che la percezione condivisa sia quella che siccome non si sta facendo niente contro i cambiamenti climatici, allora è necessario, inevitabile usare la geoingegneria.