Opinioni
Lo Stato sociale e la globalizzazione
I fautori del libero scambio sono favorevoli alla scomparsa del welfare state. Di fronte a un mercato globale le storiche conquiste dei lavoratori -e determinati diritti acquisiti nel corso del Novecento- sono diventate diseconomie produttive. Il commento di Duccio Valori, ex direttore IRI
Per Stato sociale si intendono tutte quelle misure che vennero introdotte in Inghilterra dal governo Attlee subito dopo la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale: in particolare, il Servizio Sanitario Nazionale, l’istruzione pubblica e gratuita, il sistema pensionistico basato solo in parte sui contributi versati, ecc.
Alcune di queste forme previdenziali esistevano già in altri Paesi europei, ma in nessuno in forma così organica e completa. Non si può escludere che le scelte del governo Attlee (il cosiddetto Piano Beveridge) fossero motivate dal timore che i reduci si ispirassero al modello sovietico; comunque, il Piano venne attuato ed ha retto fino a non molti anni fa.
Per globalizzazione si intende invece la graduale apertura delle frontiere ai commerci di tutti i Paesi del mondo, nell’ambito del GATT (General Agreement on Trade and Tariffs) e dei numerosi rounds che si sono susseguiti (dal Kennedy Round al Doha Round), con grande e piena soddisfazione dei fautori del libero scambio, di stretta osservanza ricardiana, ma con soddisfazione molto minore di chi ha visto poco a poco scomparire le proprie industrie meno competitive con quelle dei Paesi emergenti.
Lo Stato sociale ha, ovviamente, un costo, e poco importa che questo costo sia sostenuto dai lavoratori o dai datori di lavoro; sia in un caso che nell’altro, infatti, questo costo si riflette sul costo dei prodotto. Supponiamo che nel Paese A e nel Paese B tutti i costi (materie prime, energia, manodopera, ecc.) siano perfettamente eguali, ma che nel Paese A sia stato introdotto lo Stato sociale, e nel Paese B no: i prodotti del Paese A e B, inizialmente caratterizzati dal medesimo costo, adesso costeranno (in ipotesi) 120 nel Paese A e 100 nel Paese B. Ne consegue che -salvo minime eccezioni- il Paese B potrà esportare molto più del Paese A, e che le stesse attività produttive del Paese A saranno in gravi difficoltà.
Naturalmente, esistono varie possibilità di ovviare a questo stato di fatto.
La prima possibilità consiste nello smantellare lo Stato sociale, e questo è quanto sta gradualmente accadendo nei maggiori Paesi europei, dove quelle che erano state salutate come conquiste dei lavoratori sono oggi viste come onerose diseconomie produttive. Tutto ciò che era stato considerato acquisito viene rimesso in forse; ciò che era considerato un diritto, del quale si godeva gratuitamente, deve essere pagato; e così via.
Tutto ciò si riflette negativamente sul potere di acquisto dei cittadini, e quindi sull’occupazione; ma non sulla soddisfazione dei sostenitori del libero scambio.
La seconda possibilità è rappresentata dall’aumento delle imposte, finalizzate a mantenere in essere il costoso Stato sociale: ma anche l’aumento delle imposte ottiene gli stessi effetti negativi sul reddito disponibile, sui consumi e sull’occupazione.
C’è poi una terza possibilità, che consiste nel lasciare che la cose vadano avanti come vanno: anche i Paesi dove non esiste lo Stato sociale finiranno con l’adottarlo, i lavoratori reclameranno i loro diritti, e così via. Alla fine anche il Paese B finirà con l’avere costi pari a quelli del Paese A.
Questa terza possibilità, che consente di non fare niente e restare a guardare, è forse la più seducente, oltre ad essere “politically correct”. Essa presenta però il grave inconveniente di implicare, nel periodo intermedio (quello cioè nel quale il Paese B dovrebbe adeguarsi al Paese A), il graduale smantellamento della quasi (?) totalità delle attività produttive del Paese A, a favore di quelle del Paese B.
Non appare possibile prendere in considerazione (sempre che si vogliano salvare lo Stato sociale e le conquiste dei lavoratori) altro che una quarta possibilità: quella di frapporre tra i prodotti del Paese A e quelli del Paese B una barriera doganale sufficiente a compensare il maggior costo sostenuto da A per il Servizio sanitario nazionale, il più ridotto orario di lavoro, i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, l’istruzione gratuita, ecc.
Anche questa scelta ha un costo: i cittadini del Paese A non potranno più acquistare a basso prezzo i prodotti del Paese B, ma -con ogni probabilità– godranno di un più elevato livello di occupazione, assisteranno a meno chiusure di imprese, e –a livello nazionale– avranno una bilancia commerciale meno sfavorevole. Tutto ciò, naturalmente, per un periodo predeterminato ed escludendo quei prodotti che il Paese B sia effettivamente in grado, per ragioni legate al clima o alle risorse naturali, di fornire a prezzi realmente competitivi e senza fare ricorso a quello che si può definire come un vero e proprio “dumping” sociale.
(*) già Direttore centrale dell’IRI