Ambiente / Opinioni
La sete di profitto
Il successo della raccolta firme ha messo fretta ai fautori della privatizzazione dell’acqua
Pubblichiamo la versione integrale dell’intervista con Rosario Lembo, presidente del Comitato italiano per un contratto mondiale, uscita sul numero di settembre 2010 di Altreconomia alle pagine 16 e 17
La campagna referendaria contro la privatizzazione dell’acqua, che vede anche Ae tra i promotori, è stata un successo straordinario. In calce ad ognuno dei tre quesiti sono state raccolte 1.401.432 firme, ma l’appuntamento con l’urna -fissato con ogni probabilità nella tarda primavera del 2011- rischia di arrivare troppo tardi.
Per effetto del comma 8 lettera e dell’articolo 15 della legge “Ronchi” (la numero 166 del 2009), che disciplina il regime transitorio degli affidamenti non conformi alla via ordinaria, cioè non affidate in precedenza con gara pubblica o a società mista con selezione del privato tramite gara, “tutti gli affidamenti non conformi cessano alla data del 31 dicembre 2010”.
“In questa tipologia rientrano, nel nostro Paese, buona parte degli affidamenti a società miste pubblico-privato (in cui il partner non sempre è stato scelto tramite gara), ma anche la maggior parte dei 64 Ambiti territoriali ottimali (Ato) che formalmente hanno affidato la gestione del servizio idrico a società a controllo pubblico (la cosiddetta gestione in house) -spiega Rosario Lembo, presidente del Comitato italiano per un contratto mondiale dell’acqua (www.contrattoacqua.it), tra i promotori del referendum e del Forum italiano dei movimenti per l’acqua-. Sono situazioni che caratterizzano la maggioranza degli Ambiti territoriali ottimali (Ato) della Lombardia, del Veneto e Friuli, della Campania e delle regioni insulari. Anche nel caso degli affidamenti in house, infatti, non tutti presentano infatti i requisiti formali richiesti dall’Unione europea”.
La gabola è nascosta nell’articolo 15 della legge Ronchi, proprio quello che il Comitato promotore (www.acquabenecomune.org) chiede di abrogare con il primo quesito referendario, perché impone una gara aperta a società di capitali per affidare il servizio idrico integrato.
È per questo, Lembo, che depositando le firme in Cassazione avete richiesto una moratoria sull’applicazione della legge Ronchi?
“Gli obblighi e il regime transitorio introdotto dalla legge sono applicabili anche in assenza dei decreti attuativi (per altro approvati a inizio agosto, ndr). Così, in attesa del referendum, che se raggiungerà il quorum determinerà l’abrogazione degli obblighi previsti dal decreto Ronchi, con effetto immediato dopo la promulgazione in Gazzetta Ufficiale dei risultati, cioè nel secondo semestre del 2011, si corrono due rischi principali: da un lato una accelerazione nei processi di privatizzazione in corso, ovvero l’obbligo per gli Ato di attivare la pubblicazione di bandi di gara per cedere al privato almeno il 40 per cento delle azioni delle società prima del 31 dicembre di quest’anno; dall’altro, l’avvio di operazioni di carattere finanziario, come dimostra la fusione tra Iride ed Enìa (completata a inizio luglio, con la nascita di Iren, ndr) e l’intervento nel settore del Fondo italiano per le infrastrutture (F2i), una società di gestione del risparmio. L’obiettivo è di portare Irin a diventare leader in Italia di tutto il ciclo idrico integrato, partecipando alle gare che verranno bandite in attuazione del decreto Ronchi da parte dei Comuni che attualmente gestiscono in house o acquisendo, tramite società controllate, le gestioni dagli enti locali disponibili a cedere il 40% dei loro pacchetti azionari per far cassa. È, ad esempio, il caso di Roma, dov’è chiaro che il Comune, per far cassa, non attenda altro che di vendere le azioni di Acea.
Una moratoria che ritardi l’applicabilità della legge si rende necessaria anche per una seconda spada di Damocle: con l’approvazione della legge 42/2010 sono abrogate, con decorrenza 27 marzo 2011, le Autorità d’Ambito, composti dai Comuni, che in forma assembleare hanno finora esercitato la competenza in tema di affidamenti dei servizi idrici, investimenti e determinazione delle tariffe.
Dal marzo del 2011 non esisteranno più e non potranno più compiere atti validi dopo il 31 dicembre 2010. In questo contesto le Regioni devono definire, entro il 27 marzo 2011, le modalità di ridefinizione degli Ato a livello regionale ma soprattutto a chi affidare le competenze in tema di investimenti e di gestione del servizio idrico integrato. Appare così evidente che dal combinato delle due scadenze, quelle fissate dal decreto Ronchi ( al 31 dicembre 2010 e al 31 dicembre 2011) e la cessazione degli Ato ( Dicembre 2010), si creerà una forte indeterminatezza normativa e di gestione, in quanto difficilmente le nuove leggi regionali di ristrutturazione degli Ambiti territoriali ottimali potranno entrare in vigore prima di queste scadenze”.
Uno stallo legislativo è anche la situazione della Regione Lombardia, dove sono state raccolte circa 240mila firme raccolte per i 3 referendum.
“In Lombardia è tutto sospeso. La Corte Costituzionale, nel novembre del 2009, ha dichiarato incostituzionale la legge regionale sul servizio idrico integrato, nella parte che prevedeva la separazione necessaria tra gestione delle reti idriche e servizio di erogazione. C’è un vuoto legislativo, all’interno del quale alcune ‘buone’ gestioni pubbliche rischiano di ‘andare a gara’ a fine 2010, per dare applicazione al decreto Ronchi
Di fronte a questa situazione, il Comune di Milano ha ribadito la volontà di una gestione pubblica, e dovrebbe realizzare gli adempimenti formali che permettano di ‘salvare’ l’affidamento a Metropolitana Milanese fino al 2026.
In Provincia, invece, dove l’affidamento in house non è mai stato formalizzato, prevale ancora una delibera della giunta Colli (in carica dal 1999 al 2004, ndr), che prevede la cessione al privato del 40% delle azioni della società di gestione. Sfruttando il successo referendario e la modifica contenuta nella legge regionale numero 1 del 2009, che prevede la possibilità per le società patrimoniali, nate originariamente per gestire la rete ed effettuare gli investimenti, di mantenere anche la gestione, in alcuni Ato della Lombardia sarebbe possibile delibare queste modalità di affidamento entro il 31 dicembre 2010, scavalcando l’obbligo di conferire ai privati e alle società potenzialmente interessate (la bolognese Hera, la romana Acea, la emiliana-ligure-piemontese Iren). Corriamo altrimenti il rischio di perdere alcuni dei modelli di gestione pubblica tra i più efficienti ed economici a livello di tariffa e investimenti realizzati”.
È partito l’attacco al comitato promotore del referendum. Si è distinta, tra gli altri, Federutility, che associa il 95% delle aziende del settore, affermando che con il referendum, definito “la cura peggio del male”, “si impedisce la gestione industriale e si ostacolano gli investimenti” sulla rete. La stessa federazione, però, ha inviato una lettera ai ministri Tremonti, Matteoli, Prestigiacomo e Fitto, chiedendo “fondi pubblici di accompagnamento e sostegno per cofinanziare gli interventi previsti”. In pratica, un ritorno alla fiscalità generale. Le aziende fanno propria una richiesta del Forum italiano dei movimenti per l’acqua?
“È auspicabile un ritorno alla fiscalità generale, ma solo quando l’acqua sarà riconosciuta come un servizio d’interesse generale, di cui lo Stato o le Regioni (in funzione delle competenze attribuite) si facciano carico direttamente o indirettamente attraverso la costituzione di Fondi nazionali o regionali.
Non è corretto, invece, che questo avvenga in una logica di apertura la mercato, o come si vuol fare utilizzando il Fondo italiano per le infrastrutture “F2i “, nel momento in cui resta vigente il modello legislativo attuale in cui i privati fanno utili sulla gestione e gli investimenti deve farli lo Stato. Ciò risulta scorretto verso l’idea stessa di ‘libera concorrenza’, perché quando un servizio è collocato sul mercato, non può più vivere di sovvenzioni. Quindi la proposta non va nello stesso senso di quella del Forum: la nostra proposta di legge d’iniziativa popolare (bloccata in Parlamento dal 2007, ndr) afferma che la fiscalità generale si fa carico di garantire il ‘diritto all’acqua’, a partire dai 50 litri pro capite al giorno. Attraverso un sistema tariffario progressivo per fasce differenziate di consumi e di usi di possono trovarsi le risorse per al costituzioni di fondi a sostegno dell’acqua pubblica, in modo che non tutti i costi degli investimenti necessari ricadano sulla tariffa.
La proposta della Federutility è quindi ‘rischiosa’ . Va però tenuto presente che nel 30 per cento del Paese depurazione e fognature non sono stati attivati. Risolvere questa situazione diventa un interesse dello Stato, perché le sanzioni imposte le pagheranno tutti i cittadini con l’aumento delle tasse. La Direttiva quadro della Ue impone scadenze (il 2012 e il 2015) per raggiunger standard di qualità a livello di trattamento delle acque e l’Italia è stata già messa in moratoria rispetto agli obblighi sullo stato delle acque e sulla depurazione. Il privato, di fronte al rischio di farsi carico degli investimenti in tempi ristretti per evitare le multe, chiede al pubblico di dare un mano. Altrimenti non ha altra scelta che alzare le tariffe dell’acqua del 200 per cento nei primi anni di gestione”.
Lembo, però, non si perde d’animo: “Sono solo intralci sul nostro cammino.
Occorre saper conciliare gli obiettivi politici e culturale, rispetto ad un nuovo governo dell’acqua come bene comune in alternativa alla sua classificazione come merce , con gli intralci che una politica miope ed asservita a logiche di mercato, mette in atto per ostacolare il nostro percorso.
I milioni di cittadini che hanno sostenuto i quesiti referendari, e diversi sindaci, hanno però capito la sfida politica e culturale in atto. Il Forum italiano dei movimenti per l’acqua deve saper collegare gli obiettivi politici con le strategie di resistenza a livello locale”. Dopo la paura estiva, il cantiere dei movimenti per l’acqua riapre il 18 e 19 settembre a Firenze, proprio per avviare una riflessione nazionale programmatica e prepararsi ad affrontare le diverse sfide e scenari che il referendum ha aperto sull’acqua “bene comune” in Italia.