Esteri
Il Paese naufragato
L’Eritrea è un Paese di fuggiaschi: da qui arrivavano i naufraghi della tragedia dello scorso agosto. Si scappa dalla guerra permanente, dalla fame, dal regime La mia storia con l’Eritrea è finita in un giorno di una primavera africana di…
L’Eritrea è un Paese di fuggiaschi: da qui arrivavano i naufraghi della tragedia dello scorso agosto. Si scappa dalla guerra permanente, dalla fame, dal regime
La mia storia con l’Eritrea è finita in un giorno di una primavera africana di nove anni fa, nel 2000. Nel pomeriggio, arrivammo, giornalisti nelle retrovie della nuova e oscena guerra fra Eritrea ed Etiopia, ad Adi Qwala. Terra di trincee, questo villaggio di frontiera fra i due Paesi. Sapevamo che poche ore prima, qui, vi era stata battaglia. Era l’ultima offensiva etiopica. Quella guerra si combatteva a ondate umane. Come un secolo prima, ma con le armi del 2000. Ha lasciato dietro a sé oltre centomila morti (ma nessuno potrà mai censirne i caduti).
Ci sporgemmo sul dirupo che saliva verso Adi Qwala: era più che un cimitero o una colossale fossa comune. Per ore camminammo fra i corpi sventrati di soldati etiopi. Erano centinaia e centinaia, avvinghiati alle rocce in cerca di un disperato riparo, rannicchiati in un ultimo orrore. Quel pomeriggio, a volte, mi riappare. L’odore, soprattutto. Ma -allora- scattai le foto che dovevo scattare. Capii, mentre mi muovevo con lentezza esasperata, che il sogno di una Nuova Africa, la speranza dell’Eritrea, si era spezzato. Peggio: era diventato un incubo, s’era trasformato in una indicibile tragedia.
Un anno dopo, settembre del 2001, dopo un’ambigua tregua (uno stato di non-pace non-guerra che dura ancor oggi) il presidente dell’Eritrea, Isaias Afewerki, ordinava l’arresto di undici vecchi compagni della guerra di liberazione. Erano ministri e parlamentari. Vennero sotterrati in galere sconosciute anche un pugno di giornalisti e chiusi tutti i giornali del Paese. Era passata una settimana dall’abbattimento delle Twin Towers, il mondo non alzò nemmeno un sopracciglio sulla sorte di quegli uomini destinati a scomparire per sempre. Non saranno i soli: da allora, a leggere i rapporti di Amnesty International, sono migliaia i desaparecidos (religiosi, sindacalisti, altri giornalisti, dissidenti, giovani in fuga dal servizio militare, impiegati di organizzazioni umanitarie) nelle prigioni dell’Eritrea. Human Rights Watch ha censito 35 centri di prigionia inaccessibili a chiunque. Otto anni dopo quel settembre maledetto nessuno conosce il destino di chi è stato sepolto nelle carceri eritree.
Un balzo indietro. Per capire. Molto indietro. Maggio del 1993. Nasceva allora l’Eritrea, 53esimo stato africano, figlio di una guerra di liberazione e indipendenza durata trent’anni. Un referendum aveva confermato, quasi all’unanimità, la volontà degli eritrei, anche di quelli dispersi in una diaspora mondiale, di avere un proprio paese. La piccola Eritrea era un miracolo. Tutti, giornalisti e cooperanti, ci innamorammo del paesaggio dei suoi altopiani, della bellezza del suo mare e, soprattutto, della tenacia dei suoi abitanti. Gli eritrei ci apparivano fieri, orgogliosi, determinati, incorruttibili. Erano gli anni dell’afro-ottimismo.
E su Isaias Afewerki, il leader della lotta del popolo eritreo, tutti noi avremmo messo la mano sul fuoco. Per sette anni, fra 1991 e 1998, l’Eritrea ha davvero rappresentato una speranza. La gente sembrava rinascere dopo anni di miserie, coprifuoco e violenze. Ma, in quegli stessi anni, abbiamo ignorato sinistri scricchiolii, chiari all’improvviso solo quando, nel 1998, a maggio, senza logiche comprensibili a noi occidentali, un’altra guerra divampò fra Eritrea ed Etiopia. Da allora è stata la deriva.
Guardo le foto dei gommoni vuoti in balia delle onde del Mediterraneo. Guardo le foto dei prigionieri dei campi di detenzione libici. Uomini svaniti nel mare mentre cercavano una disperata libertà. Uomini in fuga imprigionati senza colpe.
Le acque del canale di Sicilia hanno inghiottito centinaia e centinaia di ragazzi che fuggivano dall’incubo-Eritrea. Altri sono sepolti sotto le sabbie del Sahara. E niente sappiamo di chi scappa verso la penisola arabica o verso l’Etiopia, il vecchio nemico. Ogni giorno, secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, cento ragazzi eritrei fuggono in Sudan attraverso i deserti. Molti vengono catturati durante le loro marce notturne. 11mila eritrei, da gennaio alla scorsa estate, hanno chiesto asilo a Khartoum. Migliaia non si registrano e cercano di proseguire verso il Mediterraneo. “Un ragazzo su due, ad Asmara, pensa a fuggire”, mi dice un italiano che da anni vive ad Asmara. Attenzione: in questo articolo non ci sarà mai un nome e cognome delle mie fonti. Nessuno vuole apparire, troppo pericoloso. Per sé e per gli amici ancora nel Paese.
Come è potuto accadere tutto questo? Anche negli anni più bui dell’occupazione etiopica, i ragazzi eritrei non fuggivano. O meglio: molti passavano le linee della guerriglia e si arruolavano nelle file del Fronte popolare di Isaias Afewerki. Altri trovavano rifugio in Sudan, ma vivevano nella speranza di tornare nel loro Paese. Ora l’esodo appare di massa. Che cosa sta succedendo davvero in Eritrea?
Gli eritrei, nel 1991, avevano vinto una guerra impossibile. L’Africa e il mondo, per decenni, li avevano dimenticati e loro, testardi ed eroici, avevano vinto contro ogni nemico. Quegli stessi eritrei hanno, invece, perso la pace. “Sarà più difficile che combattere una guerra”, mi disse pochi giorni dopo la liberazione di Asmara, Ascalù Mencherios, una veterana della guerriglia (oggi è fra i più fedeli e spietati alleati di Afewerki). Fu preveggente, Ascalù. “I guerriglieri sono rimasti guerriglieri”, spiega Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri del governo italiano, profondo conoscitore del Paese. Ha ragione: gli eritrei sanno fare i militari, sanno usare le armi e la violenza. E hanno continuato a farlo. Hanno svestito in fretta gli abiti civili e reindossato mimetiche (non più stracciate come ai tempi della guerriglia). Cinque generali, oggi, governano le regioni in cui il Paese è diviso. Problemi con l’Etiopia, ingombrante vicino, rivale per la supremazia nel Corno d’Africa? L’unica soluzione è la guerra (e l’Etiopia non è certo innocente in questa tragedia). E guerra, in questi anni, è stata con tutti i vicini: dal Sudan a Gibuti allo Yemen. Asmara appoggia le fazioni islamiste a Mogadiscio (forse anche per “conto terzi”: sultanati arabi del Golfo o l’Iran). Offre retrovie e rifugio alle guerriglie che cercano di disintegrare l’Etiopia. Gioca ambigue partite nel puzzle impazzito del Darfur. “Noi abbiamo un solo obiettivo: indebolire l’Etiopia. I nemici dei nostri nemici sono nostri amici”, ha spiegato, una volta, Afewerki a politici italiani. Una rivalità mortale che è una delle chiavi per comprendere il naufragio eritreo. L’Eritrea tratta con disprezzo l’Onu. A maggio, l’Igad, l’associazione per lo sviluppo dei Paesi dell’Africa orientale, ne ha chiesto la condanna alle Nazioni Unite. A giugno di quest’anno, perfino la prudente Unione africana ha reclamato sanzioni contro un proprio membro. Sdegnata la reazione di Asmara: è uscita dalle due organizzazioni accusate di piegarsi alle pretese dell’Etiopia. Perfino il rapporto con Gheddafi (per anni la Libia ha fornito petrolio a prezzi di saldo) si è incrinato. Asmara è la capitale di un Paese arroccato su sé stesso. Una Corea del Nord africana. Priva della tecnologia nordcoreana. Unico apparente e insidioso amico: l’Iran di Ahmanidejad.
In Eritea è mobilitazione permanente. Tutti, fino a 40 anni (in realtà il limite si estende fino ai 50 e comprende le donne con figlie di età superiore a tre anni), è considerato soggetto a leva militare. Nessuno può lasciare il Paese. I visti di uscita, tranne casi eccezionali e di “amici” del regime, sono negati. L’ultimo rapporto dell’International Institute for Strategic Studies (www.iiss.org) rivela che la piccola Eritrea è il secondo Paese più militarizzato del mondo. 200mila soldati in armi. Per poco più di tre milioni di abitanti (nessuno sa quanti siano esattamente gli eritrei, fra i tre e i quattro milioni, probabilmente, più della metà con meno di 18 anni). Al primo posto di questa poco onorevole classifica c’è la Corea del Nord. Al terzo, Israele. Non si finiscono gli studi a scuola, in Eritrea, ma a Sawa, una scuola-caserma nei torridi bassopiani del Paese. Dopo il penultimo anno delle superiori, ogni ragazzo e ragazza è mobilitato. Una spirale da cui non si esce. Dopo c’è il National Service. Anni e anni (la durata è praticamente indefinita) di “lavoro volontario”.
I ragazzi sono arruolati nella campagna di ‘ricostruzione’ del paese. Si chiama wersay-yekalo: il nome vuole indicare il patto fra i giovani combattenti e la vecchia guardia dei veterani. Come dire: la guerra non avrà mai fine. “Mio nipote è partito per il National Service nel 1998. Non è ancora tornato a casa”, mi dice una donna eritrea. Questo lavoro è retribuito con 150 nakfa, più o meno sette euro, al mese. L’università di Asmara, possibile luogo di dissenso, è stata chiusa: al suo posto college militari dispersi per il Paese. “Mettiti nei panni di un ragazzo di sedici anni di Asmara -mi spiega chi qui ha vissuto a lungo- sa che non ha futuro. Sa che sarà rinchiuso a Sawa. Davanti a sé ha anni e anni da passare spostando pietre nel letto disseccato di un fiume. Quel ragazzo non penserà ad altro che a scappare”.
L’Eritrea è uno di quei luoghi al mondo in cui è pericoloso crescere.
E dove vivere è umiliante. Secondo la Banca mondiale, nel 2007 il reddito pro-capite è di 230 dollari all’anno. Alimenti di base sono distribuiti da negozi di Stato e razionati. “Siamo in cinque in famiglia -mi dice un uomo di mezza età-. Ci toccava un pezzo di pane al giorno. Adesso è stato ridotto: uno di noi deve rimanere senza i suoi 50 grammi di pane. Fra poco ci daranno solo la mollica”. I pomodori costano 30 nakfa al chilo (il cambio ufficiale è 21 nakfa per un euro). Lo zucchero, 60 nakfa al chilo. Il sorgo, cibo di base, costa cinquemila nakfa al quintale. E il sorgo è cibo povero: ha sostituito il teff, il vero cereale di questi altopiani da cui ricava una focaccia acida chiamata ‘njera. Era diventato inaccessibile: 160 nakfa al chilo. Una famiglia, abitualmente, ne consumava almeno 25 chili al mese. Ma un salario medio, per chi ha un lavoro, ad Asmara è di 750 nakfa (meno di 40 euro al mese al cambio ufficiale). Fate voi i conti. Il cherosene, indispensabile ai fornelletti da cucina, è razionato, la benzina è introvabile. Ad Asmara si diffonde il mercato nero. Il cambio della moneta vola a 50 nakfa per un euro: il Paese degli incorruttibili è diventato il Paese di chi specula su cibo, benzina, cemento, sugli aiuti internazionali. Si consumano delitti e rese dei conti: businessman e trafficanti sono stati trovati morti (suicidi, incidenti d’auto…) in questi ultimi mesi.
Esercito e partito unico (ironia del nome: Pfdj, Fronte popolare per la democrazia e la giustizia) controllano ogni anfratto dell’economia. Se la cooperazione vuole costruire una scuola o un ospedale dovrà rivolgersi a una società del partito. I controllori apparterranno al partito. Nei lavori saranno impiegati i ragazzi del “lavoro volontario”. Edilizia, meccanica, import-export, banche, agricoltura meccanizzata (quel poco che c’è), tutto in mano al partito o all’esercito. L’Eritrea è la peggior immagine riflessa di una Unione sovietica vecchia di mezzo secolo. Un comunismo primitivo e cupo. Isaias Afewerki, 63 anni, è Macbeth, personaggio scespiriano: altissimo, bello, carismatico, intransigente, erede di una famiglia dell’aristocrazia degli altopiani (suo nonno era un alto funzionario del regno di Hailé Selassiè, ultimo negus d’Etiopia), divenne un eroe della resistenza eritrea contro l’occupazione etiopica. Appariva un leader moderno, spregiudicato, rigoroso. Si è rivelato un uomo sanguinario, vittima del suo potere. Non ha esitato a far sparire i suoi amici più stretti e a decimarne le famiglie.
Il potere centrale lotta per sopravvivere a sé stesso e non tollera libertà alcuna. Nelle campagne, territori di consenso per il regime, si muore di fame. Espropri e requisizioni mettono in crisi anche la fedeltà dei contadini poverissimi. Gli uomini migrano in cerca di lavoro. “Le madri assistono impotenti alla morte dei loro figli più piccoli”, mi dice chi ha potuto viaggiare fra i villaggi dell’altopiano. Guerre e siccità si saldano assieme: lo scorso anno, a scorrere i rapporti Fao e World Food Program, i raccolti hanno dato solo il 30% del fabbisogno alimentare del Paese. Le piogge erano state avare nel 2008. Quest’anno sembra siano state migliori, ma, anche negli anni buoni, si copre a stento il 60% delle necessità. Ma il governo eritreo è sdegnoso: “Non abbiamo bisogno di aiuti”.
È giusto cooperare con l’Eritrea? L’Europa pensa di sì: “Solo così possiamo sperare di avere qualche influenza su Asmara e che i diritti umani vengano rispettati’, dicono a Bruxelles. Il programma Ue per il 2009-2013 prevede 122 milioni di euro (70 in aiuti alimentari e gli altri, per lo più, in costruzione e riparazioni di strade). Ma in Eritrea sono rimaste solo 5 ong (37 solo tre anni fa). Per legge devono dimostrare di avere 2 milioni di dollari in un conto corrente.
Per anni, dopo l’indipendenza, l’Italia è stato il primo partner di Asmara, quasi a farsi perdonare il debito storico coloniale. Fino al 2005. Quando 50 milioni di euro, per l’ultima volta, sono stati dati al governo eritreo per riequilibrare la bilancia dei pagamenti. Poi nel giro di pochi mesi vennero espulse le ong italiane (ne è rimasta solo una, legata al mondo missionario), mandati via i carabinieri italiani in forza all’Onu, espulsi i missionari stranieri, rasa al suolo Villa Melotti, celebre casa italiana a Massawa, espulso anche il viceambasciatore che aveva cercato di fermare la devastazione. Nel 2006, ultima visita istituzionale del sottosegretario Mantica ad Asmara. Da allora, più niente. Oggi nel piano triennale della cooperazione italiana (2009-2011), l’Eritrea è svanita. Vi si dedica appena un rigo e mezzo su ventidue pagine. “Chiuderemo i progetti in corso e non ci saranno altre iniziative. Non abbiamo più rapporti politici con Asmara. Afewerki è responsabile della fuga e della morte dei suoi giovani”, dice Mantica. La Regione Toscana difende invece la sua cooperazione con l’Eritrea. In progetto, la costruzione di un ospedale pediatrico ad Asmara (3 milioni di euro). “Chiudere ogni dialogo rafforza solo Afewerki -dicono-. Mantenere le porte aperte impedisce la deriva verso la barbarie. Bisogna essere chiari, dire in faccia cosa pensiamo ai nostri interlocutori, ma non dimenticare mai che la cooperazione serve alla gente”. Ci prova anche la Lombardia di Formigoni: i suoi funzionari hanno incontrato a luglio il potente Yemane Ghebrab, anima nera del regime.
Come puoi sperare di fermare i ragazzi che affrontano le correnti del Mediterraneo? Non hanno futuro, non hanno speranze. Sanno bene a cosa stanno andando incontro. Hanno fratelli, amici, familiari che già hanno fatto questo viaggio da follia. Sanno che rischiano la pelle. Sanno che le loro famiglie rimaste ad Asmara saranno perseguitate. Sanno dell’orrore delle carceri libiche, sanno della ferocia dei trafficanti di uomini. Ma non hanno alternative. L’Eritrea ha tradito i loro sogni. L’Italia è il Paese che hanno più vicino al cuore e alla testa.
Ma l’ultima scena deve avere un lieto fine. Una ragazza di Asmara ottiene un contratto di lavoro in Italia. Non potrebbe uscire dal Paese. Ma dichiara di avere un figlio piccolo, ragione credibile per tornare. Quel bambino non è figlio suo, ma di una sorella, registrato a suo nome per consentirle una via di fuga. C’è il certificato del prete. Ottiene il visto di uscita. Ma all’aeroporto il doganiere è un suo vicino di casa. Sa che lui mai l’ha vista incinta. È finita. L’uomo le chiede i documenti. Li guarda, alza il viso. Fa un mezzo sorriso, un cenno con la testa. Timbra le sue carte, le augura buon viaggio. C’è qualche speranza, in Eritrea.
Soli nel Corno
L’Eritrea è poco più piccola della Grecia. Si trova nel Corno d’Africa, regione orientale del continente. Mille e duecento chilometri di costa sul mar Rosso. Confini con Gibuti, Etiopia e Sudan. Incerto il numero dei suoi abitanti: oscillano, secondo le diverse stime, fra tre e quattro milioni.
Cronologia
L’Eritrea è l’ultimo nato fra gli Stati africani. Il 53esimo. Indipendenza recente, 24 maggio del 1993, dopo la fine della guerra di liberazione dall’Etiopia e un referendum organizzato sotto la sorveglianza delle Nazioni Unite.
L’Eritrea divenne la prima colonia italiana nel 1890. È stata l’Italia a creare i confini dell’attuale Eritrea. La colonia è stata la testa di ponte per l’espansionismo italiano in Africa. Ma, nel 1896, l’Etiopia del negus Menelik fermò gli eserciti italiani ad Adua. Quasi quarant’anni dopo, nel 1934-35, l’Italia di Mussolini invase l’unico Stato indipendente dell’Africa. L’Eritrea, assieme ad Etiopia e Somalia, costituì l’impero dell’Africa orientale italiana.
Nel dopoguerra, scomparso l’impero italiano, le Nazioni Unite non riconobbero il diritto all’indipendenza dell’Eritrea: divenne provincia autonoma dell’Etiopia. Nel 1960, il negus Hailé Selassiè abolì la federazione e annetté l’Eritrea. Cominciò, allora, una infinita guerra di indipendenza destinata a durare fino al 1991. A maggio di quell’anno crollò il regime comunista di Addis Abeba, i partigiani eritrei entrarono ad Asmara. Due anni dopo, la dichiarazione di indipendenza.
Nel 1998, nuova, terribile guerra con l’Etiopia. A cui mise fine solo la tregua firmata ad Algeri nel 2000. Da allora i due Paesi vivono un pericoloso stato di non-pace non-guerra.
Le ragioni dell’Eritrea
L’alibi ufficiale dietro la nuova guerra (1998) fra Eritrea ed Etiopia è una disputa di confine. I due Paesi si sono da sempre contesi (i confini non sono mai stati demarcati) il territorio desertico di Badme, sassosa regione alle frontiere settentrionali dei due Paesi. La guerra è durata, violentissima, due anni. Non vi è stato un vincitore, ma oltre centomila morti. Una tregua disperata, l’accordo di Algeri, fermò nel 2000 questo assurdo conflitto. Due anni dopo, una commissione dell’Onu ridisegnò i confini fra i due Paesi: Badme è assegnata all’Eritrea.
Da allora, Addis Abeba rifiuta di riconoscere la decisione Onu e, tuttora, i suoi militari occupano Badme. Questa è la ragione dichiarata per la quale l’Eritrea non smobilita il suo esercito, militarizza il Paese e respinge ogni possibilità di dialogo con la comunità internazionale fino a quando questo territorio non le verrà riconsegnato.