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Ambiente / Opinioni

I Mondiali di Cortina e quella sostenibilità che prescinde dal territorio

© Mauro Cattelani - Unsplash

Per gli organizzatori del “grande evento”, i lavori sono a impatto zero. La valutazione applica però il principio della scambiabilità, compensando in altri luoghi. Per le associazioni ambientaliste è un errore ridurre la tutela del paesaggio a calcolo di mercato, incapace di considerare la distruzione della natura. Il loro contributo

A leggere le dichiarazioni sull’impatto zero e sulla “sostenibilità” dei lavori per i Mondiali di sci rilasciate da Susanna Sieff, sustainability manager di Cortina 2021, c’è da rimanere basiti.
Chi ha seguito la distruzione sistematica del paesaggio di Cortina perpetrato in questi ultimi anni in funzione dei Mondiali di sci alpino -e in previsione delle Olimpiadi del 2026- non può non interrogarsi sulla buona fede di chi sembra non vedere lo scempio che è sotto gli occhi di tutti.
Ma a una valutazione più attenta la questione centrale va oltre le parole pronunciate, non si sa se per convincimento o per ruolo, e tocca la sostanza stessa dell’idea di sostenibilità.

Si tratta infatti di due opposte visioni, di due diversi modi di intendere la sostenibilità. Semplificando: sostenibilità “con” o “senza” il territorio.
Chi la intende “senza” il territorio può fare benissimo i bilanci ambientali come li propone Sieff nei quali un albero vale un albero, e non conta “dove” e “come”, per cui è possibile tagliare un albero (o 10mila) purché se ne ripianti una stessa quantità in un altro posto, oppure emettere CO2 in montagna purché se ne intrappoli altrettanta nei sedimenti sotto una laguna.

È il principio del mercato dei diritti emissivi, che compra e vende diritti di inquinamento, in un bilancio globale in cui alla fine chi ha soldi impegna altri (che non ne hanno o che ne hanno meno) a controbilanciare i suoi impatti, senza cessare di inquinare il territorio in cui risiede. I più forti mettono altri, anche molto lontano, a servizio delle loro arbitrarie libertà (imperialismo ecologico indiscriminato e discriminatorio).
È ancora la vecchia economia, in cui esiste sempre la scambiabilità ma non la geografia e i bisogni della natura e delle altre innumerevoli forme di vita, in cui chi detiene il potere si sente in diritto di imporsi con universali indistinte regole di produzione, consumo, delocalizzazione, trasporto, accumulo, scarico e attività finanziarie varie, ovunque, senza distinzioni legate alle differenze geografiche (fisiche, naturalistiche, meteo-climatiche, geomorfologiche, idrogeologiche, socio-economiche, culturali).

È quell’economia per la quale non esistono limiti intrinseci, per la quale le montagne si possono tranquillamente traforare (dal punto di vista del trasportatore) o riempire di funivie (dal punto di vista dell’impiantista), purché si compensi in qualche modo, e questo, nel moderno “greening”, vale anche per gli alberi e per le tonnellate di CO2 e comunque e si può sempre scambiare, comprare, spostare, sostituire, ricreare, ripristinare.

Chi invece intende la sostenibilità “con” il territorio considera le comunità e i sistemi che ne risultano (socio-economici, ecologici, meteoclimatici) nella loro unicità e peculiarità. In questa visione poco o nulla è vendibile, traslabile, fungibile se non a rischio di elevati costi in perdite e disfunzioni non reversibili non solo di paesaggio ma anche di storia, di cultura, di memorie, di identità.

In questa prospettiva il paesaggio è da intendere nella sua accezione più evoluta e consapevole, difficilmente compensabile, sostituibile; in alcuni casi è forse restaurabile, ma in misura limitata e per lo più solo esteticamente, e assai raramente nella sua struttura, nei suoi metabolismi, nella sua economia.

È una prospettiva per cui ogni territorio è diverso e prezioso, e richiede di valutare con attenzione la misura degli interventi e dei loro effetti diretti, indiretti e cumulativi, il più delle volte poco compresi e quantificati, come pure la specifica reattività e resistenza del territorio, prima ancora della sua resilienza, che è sempre un’incognita, una speranza quando il resto è perduto.

In breve, la “sostenibilità” “senza” tenere in conto il territorio è facilmente misurabile ma è inconsistente, esteriore, di contabilità cartacea istantanea, calcolabile meccanicamente e per parti separate, mentre quella “con” il territorio è strutturale, di lunga provenienza storica e di misurata proiezione al futuro, cosa non da facile propaganda, come invece lo è la prima.
Dal confronto tra queste due visioni emerge, a nostro avviso, che Sieff può anche continuare a raccontarsela e a raccontarcela, in linea con tante voci a livello comunale, provinciale, regionale e nazionale, come se fossimo al di fuori e al di sopra della natura, ma questo non farà che peggiorare la crisi ambientale e avvicinarci al punto di non ritorno. Non si tratta solo di una questione culturale. La natura non ha bisogno di noi. Perché smettere di violentarla? Anche perché ci conviene.

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