Ambiente
COP17. Kyoto sull’orlo dell’abisso
C’è qualcuno che sta uccidendo Kyoto. E non è il maggiordomo, ma chi fa parte dell’High Level Segment. Il ministro canadese e quello giapponese si sono trovati d’accordo nel mettere in un cassetto Kyoto perchè inefficace. La Cina rilancia, Via Campesina protesta, ma buona parte dei Paesi industrializzati sembra guardare ad altro, come le opportunità di mercato che il clima offre. Senza obblighi né impegni vincolanti. E la conclusione della Conferenza si avvicina.
"Non vogliamo scontentare o deprimere qualcuno, ma Kyoto is in the past". Non poteva essere più chiaro Peter Kent all’High Level Segment poco più di un’ora fa, parlando ai rappresentanti politici di mezzo mondo arrivati per assistere agli ultimi giorni, quelli che contano, della 17a Conferenza delle Parti Onu di Durban.
Kyoto, l’unico accordo internazionale esistente capace di mettere vincoli e dare indicazioni alla lotta al cambiamento climatico, "non è efficace". Il Canada è a Durban per "nuove soluzioni e nuovi approcci" per combattere il climate change, e certo in queste proposte innovative non c’è spazio per Kyoto e tanto meno per il "second commitment period" previsto dal Protocollo e su cui i Paesi meno sviluppati e quelli emergenti fanno pressione oramai da due anni.
Il Canada apre una spaccatura interna alla COP che neppure il Giappone ai tempi della COP16 era riuscito a fare con le sue pressioni per affossare Kyoto. Ma c’è di più, secondo Kent l’unico accordo degno di nota è il Cancun agreement, l’accordo general-generico approvato per acclamazione alla fine di una "due settimane" di lavori in Messico per rimettere in carreggiata un negoziato al limite della chiusura dopo Copenhagen.
Un’acclamazione che la stessa Cina ha ricordato con ironia, sottolineando che a Durban si dovrà uscire con un accordo reale e condiviso, non acclamato.
Che significa se si chiudesse la possibilità di un’implementazione di Kyoto? Che si aprirebbero molti fronti, tra cui la richiesta da parte dei Paesi in via di Sviluppo di bloccare tutte le soluzioni di mercato, soprattutto i Clean Development Mechanisms, che spostano miliardi di dollari in diritti di emissioni per quei Paesi che non riescono, o non vogliono, tagliare direttamente la loro CO2. Se questi Paesi non accettano Kyoto, è la riflessione, non si capisce perchè debbano sfruttare le opportunità economiche che offre. "Non si può scegliere quali parti del Protocollo applicare" ricordano i Paesi dell’Alleanza Bolivariana delle Americhe.
Per il Canada è necessario un nuovo accordo che coinvolga tutti. Grandi e piccoli, vecchi e nuovi inquinatori, anche se la Convenzioni è molto chiara e parla di "responsabilità storica e differenziata".
E’ un assist perfetto per il Giappone, che da più di un anno scalpita per destrutturare Kyoto. "Il protocollo copre solamente un quarto delle emissioni mondiali" quindi "il Giappone non parteciperà al second commitment period". Perchè serve un nuovo Gruppo di lavoro con un nuovo mandato che renda operativo il Cancun Agreement, con i suoi meccanismi di mercato e con il REDD+, legato alla gestione delle foreste e tanto contestato dai movimenti indigeni.
Durban in questi giorni sta diventando quello che il Primo Ministro sudafricano Zuma vorrebbe non diventasse, cioè la tomba dove sotterrare Kyoto. Avevano cominciato a scavare alla COP15 danese, con quel Copenhagen Accord costruito al di fuori delle Nazioni Unite, una sorta di accordo fra pochi.
E la Cina? Ribadisce la necessità di un periodo di impegni come previsto da Kyoto, perchè Durban dovrebbe consolidare una cornice legale che comprende il Protocollo e lo rilancia.
Quasi un discorso tra sordi, ma il senso dei giorni prima della conclusione è sempre quello del gioco strategico. Il problema è che una prospettiva così tragicamente chiara come quella espressa dal Canada, dal Giappone e, dietro le quinte, dagli Stati Uniti, non si era mai presentata.
Una prospettiva ben lontana da quello che viene richiesto in questi giorni dai movimenti sociali e da Via Campesina, che nella loro Durban Declaration di alcuni giorni fa ha richiesto impegni concreti per i Paesi industrializzati, come il taglio del 50% delle loro emissioni entro il 2020 tenendo come riferimento le emissioni del 1990, il blocco di ogni meccanismo di mercato per a rischio di frode e di manipolazione a vantaggio dei pochi, un contributo sostanziale al Climate Fund del 6% del Pil attraverso fondi pubblici ed aggiuntivi, non sostitutivi di altre risorse stanziate.
Richieste che sembrano rimanere inascoltate nel deserto di un negoziato che rischia di portare il mondo, al 10 dicembre, in una situazione ben peggiore di quella presente solo alcuni giorni prima.