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Esteri

Argentina, un Paese ricostruito senza fondamenta

La povertà assoluta non è diminuita in maniera sensibile dal 2003 ad oggi, e le scelte del Governo -da quelle di politica monetaria ai programmi sociali- hanno portato alla situazione attuale. Non sono stati accompagnati da un piano di sviluppo economico, necessario per creare occupazione. Lo spettro della "crisi del 2001" nell’analisi di Francesco Vigliarolo, economista italiano che insegna a Buenos Aires

A Buenos Aires il fantasma del 2001 rialeggia nell’aria. Ognuno, però, interpreta il problema leggendolo a partire dai propri interessi. Così, per molti, il rischio maggiore per l’Argentina sarebbero gli speculatori che riappaiono. A nostro avviso, però, la preoccupazione maggiore non è più quello di dover pagare fondi milionari, ma l’aver rubato di nuovo ogni speranza a un Paese che si trova a fare i conti con una incertezza finanziaria seria, perché la "ripresa" c’è stata solo a parole, e non nei fatti.
Per questa ragione, ciò che sta succedendo oggi in Argentina, a nostro avviso, dipende da almeo quattro classi di problemi principali:
–    una politica monetaria senza un piano di produzione.
–    Politche sociali senza orizzonte di sviluppo.
–    Impunità e corruzione.
–    Il fantasma dei fondi “avvoltoi”, che rischia di mettere nell’ombra tutto il resto.

Queste classi di problemi si rispecchiano in una situazione che è arrivata forse al suo punto di tensione massima. Il Paese è investito da un’inflazione galoppante, che possiamo stimare intorno al 25%: scriviamo questo perchè non c’è alcun dato ufficiale che lo confermi. L’Istituto nazionale di statistica, l’INDEC, oramai quasi unanimanente considerato inaffidabile, la dà al 9%. Ma i tassi di interesse attivi sui risparmi sono in media intorno al 20%, e i salari -che aumentano ogni anno attraverso la contrattazione sindacati-governo, detta "paritaria"- crescono di un 25%.

Esistono ormai tre mercati monetari: quello ufficiale, quello chiamato “blu” (illegale o parallelo) e quello "turistico". Il cambio tra peso (la moneta nazionale) e il dollaro per i tre mercati oggi è rispettivamente 1 a 8, 1 a 12 e -per quello turistico- 1 a 10 (circa). Questo dipende dal fatto che gli acquisti fatti fuori dal Paese con carta di credito subiscono un ricarico del 35% su quello ufficiale,  e -a partire dal 27 di gennaio 2014- del 20%.
Perchè proprio a partire, il Governo ha fatto ricorso a nuove misure per recuperare credibilità di fronte ai mercati illegali che si sono installati e ormai "sono nell’economica" come elementi di assoluta normalità. Esistono addirittura case di cambio illegali, che rilasciano lo scontrino che indica il valore del cambio del dollaro o euro "blu", che ha fine gennaio vale quasi 14 pesos.

Per questo motivo, il governo ha lanciate nuove misure che dovrebbero aprire nuovamente il mercato ufficiale del dollaro, forse per raffreddare il mercato illegale: prima, infatti, era quasi praticamente impossibile acquistare dollari; oggi si prevede un massimo di 2mila dollari, per coloro che guadagnano almeno 7.200 pesos netti al mese. E non si tassano più del 20 per cento i risparmi in dollari, se sono bloccati per almeno due anni; e, come già anticipato, è stata ridotta la tassa per gli acquisti fuori dal Paese dal 35 al 20%.
Questo pacchetto di misure si aggiunge ad altre, che riguardano gli acquisti fatti su internet: i compratori dovranno riempire una dichiarazione giurata, certificando il proprio reddito. Ad ogni modo, il bilancio del primo giorno della riduzione delle limitazioni all’acquisto di dollari pubblicato dall’AFIP, l’Agenzia del Fisco argentino, è di 121 operazioni accettate per 59 milioni di dollari. 75mila, invece, le operazioni rifiutate.

Per spiegare come si è arrivati a questa situazione, alla creazione di mercati illegali assolutamente pericolosi, dobbiamo riprendere in mano le quattro "classi" di problemi che abbiamo discusso.
Rispetto alla prima -la politica monetaria– un momento chiave è fine ottobre del 2011, quando il Governo limita fortemente l’aquisto al dollaro (secondo alcuni per limitare l’esportazione di divisa internazionale, secondo altri per mantenere le riserve della Banca Centrale).
Da quel momento in poi, il peso ha iniziato a svalutarsi. Secondo il “discorso” del Governo ciò serviva a rafforzare la moneta nazionale: per questo, l’esecutivo invitava pubblicamente invitava tutti a convertire i propri risparmi da dollari in peso. Appare alla fine del 2011 il dollaro "blu", che chiude a quasi 4,76, distaccandosi di quasi 1 punto in soli due mesi da quando iniziano le restrizioni. Nel 2012, il blu inizia a 4,75 circa e chiude a 6,70. Nel 2013 il peso argentino si svaluta di un 25%, mentre il costo del dollaro illegale aumenta di un 47%, arrivando alla fine dell’anno a quasi 10 pesos per un dollaro.
A fine gennaio 2014, in un solo giorno il dollaro ufficiale è passato nel cambio con il peso da 3.47 a 7.14. Quel giorno è stato definito uno dei peggiori per la finanza argentina. Il Paese affronta una svalutazione come non accadeva da 12 anni, dalla crisi del 2001.
E nei primi 21 giorni del 2014 la Banca Centrale ha perso in media 71,73 milioni di dollari al giorno, portando le sue riserve sotto i 30mila milioni di dollari.

Per rafforzare l’economia interna, l’Argentina ha scelto di chiudere alle importazioni, ma il Paese non ha un vero piano di sviluppo economico. Ciò ha fatto schizzare il prezzo di alcuni prodotti interni, oltretutto non competitivi per qualità, ma il cui costo si ripercuote su tutte le filiere continuamente. Per capire la dimensione della situazione negli effetti quotidiani, basta dire che alcune imprese fornitrici sono momentaneamente chiuse perchè non hanno riferimenti per fissare i prezzi per vendere le loro merci. E il prezzo di un caffè è passato da 10 pesos del 2011 a quasi 20 pesos di oggi.
Il momento in cui sono iniziate queste politiche “nefaste” fondmentalmente senza un piano produttivo è, a nostro avviso, il 2003. Una data che introduce la seconda classe di problemi, quelli relative alle politiche sociali. Dopo la crisi sono stati avviati tantissimi piani sociali, che in quel momento avevano sicuramente una loro ratio. A distanza di oltre 10 anni, però, è una pratica conclamata che forse -specie dopo il 2008- ha avuto un’altra ratio, quella di mantenere, secondo alcuni, la popolazione meno abbiente in una situazione di assistenza permanente, per creare un bacino di voti. Il risultato è che non si è creata la possibilità di offrire un lavoro a queste persone, per potersi -per esempio- inserire in un mercato del lavoro industriale capace di produrre valore aggregato.
In questa direzione si possono leggere per esempio il programma “Argentina Trabaja”, che fomenta la creazione di cooperative, i cui componenti ricevono un salario minimo: molte stanno insieme solo grazie a questo, e le imprese registrano un alto tasso di mortalità. Inoltre, non vi è nessuna strategia di sviluppo economico. Manca l’attenzione a settori specifici, all’esigenza di creare competitività interna, immaginando un contenimento dei prezzi. L’Argentina continua a essere un Paese agroesportatore: oggi, ad esempio, la soia è tassata al 25%, e il ricavato viene speso nei tanti piani sociali, che non permettono però di uscire dalla condizione di difficoltà in cui molti ancora rimangono. Secondo alcune ricerche, come quella autorevole dell’Osservatorio Barometro dell’Università Cattolica, la povertà assoluta non è assolutamente diminuita in maniera sensibile dal 2003 ad oggi.

A una massa di spesa pubblica che non ha generato cambi strutturali si aggiunge una denuncia crescente della corruzione del Governo, avanzata da quasi tutte le forze politche. Sono eclatanti i casi che continuamente escono alla luce, ma ciò che duole maggiormente alla popolazione non è la corruzione quanto una magistratura completamente assente. Una magistratura che l’esecutivo -oggi guidato da Cristina Elisabet Fernández de Kirchner- ha cercato anche di controllare con la riforma del suo Consiglio, prevedendo che i due terzi dei rappresentanti siano nominati dalla politica, sotto lo slogan di “democratizzazione della magistratura”.

Rispetto all’ultima classe di problemi, il fantasma dei fondi “buitre” del 2001 riappare, ma non è il problema principale. Certo, attirano l’attenzione dei media, come le agenzie di stampa italiane. Non nego che il problema di questi fondi è sempre stato presente in Argentina, ed è senza dubbio serio, anche perchè se il giudice che segue la causa negli USA darà ragione, anche in appello, al gruppo di speculatori che avevano acquistato fondi a costi irrisori durante il 2001 (e oggi hanno un valore milionario), il Paese andrebbe di nuovo in ginocchio, e forse in un nuovo defalut.
Ad ogni modo, se la situazione rimane angosciante è per altri motivi: ogni giorno il prezzo del dollaro aumenta. Poichè l’economia argentina è assolutamente dollarizzata, e dipende da beni importati, una svalutazione del peso implica una risposta inflazionaria permanente dei prezzi. E con una riserva della Banca Centrale al minimo storico da tanti anni, dove il dollaro e l’euro blu sono ormai monete reali che si cambiano in tutti gli angoli del centro, il Paese sembra non avere una direzione economica seria, che permetta di creare “ricchezza interna”. Questi sono i problemi principali a nostro avviso.

La situazione argentina sembra suggerire alcune lezioni: il mercato è senza dubbio un fenomeno sociale spontaneo, che va regolato e non chiuso, perchè appena lo chiudi se ne apre uno parallelo, che ha consguenze importanti su quello ufficiale.
La seconda è che l’Argentina rimane un paese che ha la “presunzione” di camminare con un solo motore, quello agropecuario e delle esportazioni: l’industria interna argentina è assolutamente debole, e non esiste un mercato interno di beni con valore aggregato importante. Fare politiche monetarie senza rafforzare la produzione significa costruire senza fondamenta. Forse, a nostro avviso, i tanti soldi spesi nei piani sociali avrebbero potuto essere indirizzati -con maggiore criterio- a rafforzare una industria interna che produca la sostenibilità del Paese e non dipenda -per tanto- dal dollaro. Ma si è voluto rafforzare la moneta interna, senza rafforzare la sua produzione. Si è voluto chiudere alle importazioni, senza aver sviluppato prima una industria. Ancora una volta, si sono fatte le cose al contrario, partendo dalla moneta e non dalla forza lavoro, come il fenomeno delle imprese recuperate aveva indicato con chiarezza, almeno sul piano culturale, anche se troppo piccolo per incidere attualmente nei grandi numeri.

* professore di Economia Regional alla Universidad Catolica de La Plata – Universidad de San Martin en Buenos Aires

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