Opinioni
Un Paese in crisi d’identità
Telecom, Finmeccanica, Alitalia, Ilva sono le diverse facce di una situazione di profondo smarrimento che coinvolge l’idea stessa di economia nazionale. È finito il "capitalismo dei salotti buoni", e anche l’invocazione di Cassa depositi e prestiti come argine a ogni falla del sistema d’impresa è indice di profonda debolezza.
Il commento di Alessandro Volpi, il cui nuovo libro "La globalizzazione della culla alla crisi" è appena uscito per Altreconomia edizioni
Siamo a inizio ottobre, ma l’Italia in queste settimane sembra investita da uno smarrimento molto simile a quello dell’otto settembre 1943, perché la sensazione palpabile è quella di una crisi profonda di identità.
La vicenda Telecom costituisce la sintesi, in parte persino involontaria, delle anomalie di un capitalismo malato: la spagnola Telefonica, acquisendo di fatto con l’avallo delle banche italiane il controllo di Telco, si impossessa di poco più del 22% dell’azionariato di Telecom, e con questa quota di evidente minoranza controlla un asset strategico per il Paese, in quanto detentore della rete.
Se i patti di sindacato e le minoranze blindate sono servite nel tempo a perpetuare il controllo italico, con pochi capitali, dei grandi gruppi di interesse nazionale, ora la medesima regola -in presenza della pressoché totale scomparsa di un’imprenditoria italiana dotata di una dimensione non trascurabile- ha messo in mani estere, a prezzi di saldo e senza resistenze, una società fondamentale per l’economia italiana.
Ormai il modello del capitalismo dei “salotti buoni”, dove pochi amici gestivano società dalle vaste e, afone, compagine societarie, è sull’orlo della crisi di nervi. È caduto prima sotto i colpi del debito e dell’eccessiva dipendenza dalle iniezioni bancarie, e poi -proprio per i suoi caratteri originari di tutela degli interessi di ristrette oligarchie- per effetto di fulminee acquisizioni straniere. Ma se è fallito il capitalismo dei salotti e degli ex capitani coraggiosi, è decisamente malato anche il capitalismo di Stato di Finmeccanica e di Alitalia, quest’ultima colpita pure dal sequestro dei beni del gruppo Riva, azionista al 10% della compagnia aerea. Debiti, troppe intrusioni della politica e incapacità hanno dimostrato l’inadeguatezza di un modello a lungo coltivato nel nostro Paese. Dove il “caso Ilva” dimostra i contorsionismi in cui spesso si è esercitato il capitalismo familiare, altra declinazione del capitalismo nostrano, troppo dipendente dalle sorti della proprietà e dalle sue strategie non sempre soltanto industriali.
Telecom, Finmeccanica, Alitalia, Ilva sono le diverse facce di una crisi profonda che coinvolge l’idea stessa di economia nazionale, indebolita ulteriormente dalla fragilità del sistema bancario, a partire da Mps, troppo dipendente dalla liquidità della Bce che oggi sta diventando assai difficile da rimborsare. La malattia del credito investe poi il tessuto delle microimprese, per le quali attingere a finanziamenti è diventato praticamente impossibile se non per tentare di ristrutturare il proprio debito in un’ottica di pura, e spinosissima, difesa dell’esistente. La paradossale e costante invocazione dell’intervento della Cassa depositi e prestiti per arginare ogni falla del sistema d’impresa è un altro segnale della assoluta debolezza dell’economia italiana: pensare che i risparmi postali possano fare da prestatore di ultima istanza per le crisi del Paese è davvero arduo.
In questo panorama si colloca la drammatica crisi politica giunta all’ennesimo capolinea, nonostante il voto di fiducia all’esecutivo Letta. Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che, in queste condizioni, non è neppure immaginabile uno straccio di politica economica perché non esiste ancora -e così è molto improbabile che esisterà- una maggioranza politica; è davvero inutile e fuorviante lanciare messaggi agli investitori esteri, come ha provato a fare “Destinazione Italia”, quando non esistono né un governo né un Parlamento realmente in grado di elaborare le misure più elementari con una scadenza superiore ai due mesi.
Viviamo il tempo del rinvio, o meglio sarebbe dire del “rinculo”, sia sul piano delle misure fiscali -ridotte a filastrocche Imu sì, Imu no, Iva sì, Iva no– sia su quello delle regole, come dimostra la parodia sulla tardiva scoperta della golden share. Nella totale assenza di una reale sovranità politica, il Paese assiste allo sgretolarsi dei diversi aspetti della propria Costituzione materiale, una condizione che forse è addirittura peggiore della fine o dello stravolgimento della Costituzione formale. Sta sparendo la dialettica costruita su programmi e progetti contrapposti, ma definiti sulla base dell’interesse comune, stanno scomparendo i diversi modelli di organizzazione economica, sta affievolendosi ogni capacità di non dipendere in toto dalle sovraordinate ricette europee.
Purtroppo sta venendo meno anche un senso condiviso delle istituzioni; bisogna fermare al più presto questo disastro civile perché in democrazia non è ammessa la fuga dalle responsabilità. Non è possibile, insomma, un altro 8 settembre.
* Università di Pisa