Opinioni
La radice comune del fallimento greco e della strage di Sousse
È la "cecità" il filo che unisce la decisione dell’Europa di strangolare la Grecia ai 39 turisti barbaramenti uccisi sulla spiaggia tunisina. "La violenza si combatte eliminando le cause della violenza. Ma per riuscirci serve un cambio di strategia. Non più l’uso della forza e dell’arroganza, ma della coscienza e dell’ascolto. Solo popoli che sanno riconoscere i propri errori e che sanno ascoltare le ragioni degli altri possono costruire rapporti pacifici" scrive Francesco Gesualdi
La decisione dell’Europa di strangolare la Grecia e i 39 turisti barbaramente uccisi sulla spiaggia di Sousse, in Tunisia, sembrano fatti così lontani fra loro, eppure niente sta più insieme di loro. Il filo che li tiene uniti si chiama cecità, prima ancora che da parte dei terroristi, da parte dei nostri governanti.
Sulla storia del debito pubblico greco, sul ruolo della corruzione e dei prezzi gonfiati che ha visto il coinvolgimento massiccio anche delle imprese di armi tedesche, sul ruolo dell’alleggerimento fiscale per le classi più agiate, sul ruolo degli interessi, sul ruolo dei prestiti forniti per mettere al sicuro le banche creditrici ed evitare il fallimento alle banche private greche, in una parola su un debito pubblico costruito con la complicità di tutti per arricchire i già ricchi alle spalle del popolo greco e dei contribuenti europei, già molto si è scritto. Come in romanzo drammatico, l’unico capitolo che manca è quello finale, relativo alla condanna a morte del protagonista. Ma a scrivere questo capitolo sta pensando la classe politica europea.
Ridiciamocelo. Il debito greco non è una questione finanziaria. Sul Pil europeo vale poco più del 2%, mentre sul debito pubblico di tutti i paesi Ue vale poco più del 3%. Se la classe politica europea la smettesse col fanatismo mercantilista, l’Europa avrebbe un’infinità di strumenti per risolvere subito il problema del debito greco senza contraccolpi per nessuno. Il punto è che non lo vuole fare perché il debito greco è una questione politica. È l’occasione per riaffermare che la classe politica europea sta dalla parte di chi ha i soldi contro i diritti e l’interesse collettivo. In questi lunghi mesi di negoziato, il governo Tsipras ha cercato di indurre la dirigenza europea a considerare anche le ragioni delle persone, le loro condizioni di vita, il loro diritto alla dignità. Ma non c’è stato niente da fare: come gelidi kapò impegnati a tenere diligentemente il registro degli internati da mandare al forno crematorio, così i capi di governo europei, alcuni di loro fregiati del titolo di centro sinistra, hanno rifiutato le richieste greche per ricordare al mondo che l’ordine economico e sociale che vogliono far trionfare è quello mercantile del grande capitale. Costi quel che costi sul piano umano, sociale, ambientale.
Cosa potrà succedere quando la Grecia sarà sola con tutte le sue difficoltà, nessuno può saperlo. Ma se cercherà soluzioni presso i russi o i cinesi, diventando un corpo estraneo, addirittura una spina nel fianco dell’Europa e più in generale del vecchio ordine occidentale, allora si griderà al nemico fanatico aprendo nuovi fronti di ostilità. Uno scenario che ci porta sull’altro versante, quello arabo.
L’Europa si sta ponendo di fronte al terrorismo arabo come se fosse una vittima innocente al pari di un tranquillo viandante preso d’assalto dalla furia omicida di un folle. Alibi perfetto per non parlare mai di sé, delle proprie responsabilità e poter rivendicare il diritto a porsi come unico obiettivo quello di annientare il folle. Ma se i trucchi possono funzionare per dare sfogo alla forza muscolare col consenso popolare, raramente danno risultati nella soluzione dei problemi.
Quando si vuole evitare di analizzare i fenomeni, e soprattutto le responsabilità, la si butta sempre sul conflitto religioso o etnico. È successo per la resistenza nord-irlandese, è successo per i conflitti centro africani, è successo per il conflitto kurdo, armeno, ceceno e chi più ne ha più ne metta. Ma le questioni religiose ed etniche sono usate come pretesto per nascondere tutt’altre aspirazioni e tensioni. Io non nego che nelle file arabe possano esserci degli assetati di potere che usano il Corano per portare avanti il loro progetto di potere personale. Ma la domanda da porci è perché fanno così tanti proseliti. Chi sono coloro che rispondono all’appello dei califfi di turno, che accettano di uccidere o di trasformarsi in bombe umane? Solo dei fanatici religiosi? Risposta troppo semplice, ma soprattutto insufficiente a trovare una soluzione. In realtà io ci vedo tanto risentimento e tanto rancore da parte di persone che si sentono umiliate e represse per non avere trovato in Europa quell’uguaglianza a cui aspiravano come nel caso dei tanti maghrebini confinati nei bassifondi delle grandi città; per essersi sentiti vittime di un’aggressione straniera come nel caso dell’Iraq; per essere stati violentati nella democrazia come nel caso dell’Egitto; per essere stati spodestati a casa propria come nel caso della Palestina. Se non affrontiamo questi nodi con l’umiltà di chi sa di avere commesso degli errori e con la volontà di voler trovare delle soluzioni che rispettino le aspirazioni dei popoli a maggiore giustizia, a maggiore democrazia e anche a maggiore rispetto delle proprie radici culturali, non andremo da nessuna parte. Non possiamo continuare a pensare di risolvere i problemi sul piano muscolare. Violenza richiama violenza, ognuno si organizzerà come può e se noi che abbiamo gli eserciti butteremo le bombe, loro che l’esercito non l’hanno si organizzeranno col terrorismo, in una guerra di nervi che ci porterà sempre di più verso l’isterismo.
È arrivato il tempo di dire che la violenza si combatte eliminando le cause della violenza. Ma per riuscirci serve un cambio di strategia. Non più l’uso della forza e dell’arroganza, ma della coscienza e dell’ascolto. Solo popoli che sanno riconoscere i propri errori e che sanno ascoltare le ragioni degli altri possono costruire rapporti pacifici. Se siamo troppo orgogliosi per farlo per noi, facciamolo almeno per i nostri figli.